Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Il cameriere del Papa, Paolo Gabriele detto “Paolino”, imputato di furto aggravato, è stato condannato ieri a un anno e mezzo di carcere, da trascorrere eventualmente in un penitenziario italiano, ma probabilmente da dimenticare perché tutti giurano che Benedetto XVI concederà la grazia. La procedura è diversa da quella italiana: non c’è bisogno che Gabriele chieda di essere perdonato, come avviene in Italia, il pontefice può agire di sua iniziativa senza che nulla possa frapporsi alla sua volontà (in Italia la grazia deve essere controfirmata dal ministro della Giustizia, che non può tuttavia sottrarsi).
• Riassumiamo i termini di questo processo che ha interessato tutto il mondo.
Paolo Gabriele, profittando dell’intimità col pontefice, ha sottratto almeno due casse di documenti dalle stanze papali e ha passato una parte di questi documenti al giornalista Gianluigi Nuzzi, che lo ha prima intervistato su La7, di spalle, in modo che non fosse riconosciuto (in quest’occasione Gabriele ammise di essere il famigerato e misterioso “corvo” che rendeva pubbliche notizie riservatissime) e poi ha utilizzato il materiale per comporre un libro di gran successo, intitolato Sua santità. Le carte segrete del Vaticano
(edizioni Chiarelettere). Durante il processo, quando gli hanno chiesto se si ritenesse copevole o innocente, Gabriele ha dato la seguente spiegazione del suo comportamento, senza in definitiva rispondere alla domanda che gli era stata fatta: «La cosa che sento forte dentro di me è la convinzione di aver agito per amore esclusivo, direi viscerale, per la chiesa di Cristo e per il suo capo visibile (il Papa, ndr). È questo che mi sento. Se mi devo ripetere, non mi sento un ladro». Naturalmente, bisogna inquadrare il caso Gabriele all’interno della lotta che si è svolta nella prima parte dell’anno tra le varie fazioni vaticane. In particolare gli agguati e le trappole per colpire il segretario di Stato Tarcisio Bertone. Il segretario di Stato è la massima autorità politica dopo il Papa. Come ricorderà, si trattò di una lotta così accanita da far pensare a un conflitto propedeutico alla successione di Benedetto.
• Quelle dichiarazioni di Gabriele non fanno piuttosto pensare all’azione di uno squilibrato?
Già, lo hanno pensato anche i giudici. A un certo momento Gabriele ha detto: «Sono interessato all’intelligence... in qualche modo pensavo che nella Chiesa questo ruolo fosse proprio dello Spirito Santo, di cui mi sentivo in certa maniera un infiltrato». È stata subito disposta la perizia psichiatrica, ma il medico ha poi detto che la condizione del cameriere «non configura un disturbo di mente tale da abolire la coscienza e la libertà dei propri atti» benché si tratti evidentemente di un uomo «suggestionabile e quindi in grado di commettere azioni che possono danneggiare se stesso e/o gli altri».
• Che cosa significa esattamente, in questo caso, la parola “cameriere”?
Chiariamo subito che si tratta di un laico, 46 anni, sposato, tre figli. Forse è più giusto chiamarlo “maggiordomo”. O, meglio: “aiutante di camera”. In ogni caso: si tratta di uno dei familiari del papa, la cerchia più intima della cosiddetta “famiglia pontificia”. I familiari sono pochissimi: i due segretari particolari, monsignor Georg Gänswein e monsignor Alfred Xüreb, e le quattro “Memores Domini” che si occupano dell’appartamento e della cucina, Carmela, Loredana, Cristina e Rossella. Gabriele fa questa professione dal 2006. Prima di questo guaio era descritto come persona seria, semplice, cattolicissimo, devoto di Santa Faustina, fedelissimo di Benedetto. Nei primi momenti, quando lo avevano appena individuato e arrestato, si diceva che il papa fosse “disperatissimo”.
• Che cosa gli succederà ora? I giornalisti gli salteranno addosso…
Non sarà licenziato e non gli si cambierà nome. Quasi certamente, dopo la grazia, lo manderanno a lavorare fuori del Vaticano e forse addirittura fuori d’Italia, in qualche struttura cattolica che non ci faranno sicuramente sapere.
• Che idea s’è fatta, in generale, del “processo”?
Mi viene in mente il verbo manzoniano “sopire”. La Chiesa sapeva che tutto il mondo avrebbe guardato al dibattimento. E mi pare che perciò la preoccupazione principale sia stata quella di ridurne le proporzioni. Non si è proceduto, come sarebbe stato possibile e forse indispensabile in punta di diritto, ad allargare l’imputazione a delitto contro i poteri dello Stato, vilipendio delle istituzioni dello Stato, calunnia, diffamazione, violazione dei segreti. La pena richiesta dal pubblico ministero è stata dimezzata da tre anni a diciotto mesi, accreditando così ulteriormente l’idea che si sia trattato, in definitiva, di una marachella provocata da troppo amore. La posizione dell’altro imputato, Claudio Sciarpelletti, analista programmatore della segreteria di Stato, è stata subito stralciata e in questo modo si è evitato di chiamare alla sbarra alcuni religiosi/testimoni come monsignor Polvani. Ed è stato soprattutto assegnato a un altro dibattimento, a cui i media non faranno sicuramente caso, l’esame del materiale informatico trovato a casa di Gabriele. Nessun accertamento sui possibili complici, e del resto come sarebbe stato possibile in sole quattro udienze? Anzi, non ci sarebbero complici, secondo quanto ha dichiarato padre Lombardi, portavoce della Santa Sede. Tutto si riduce così all’azione maniacale e addirittura ispirata di un povero cristo, che sarà infatti perdonato. La tedesca “Welt” aveva ipotizzato il coinvolgimento, nell’operazione di spionaggio, anche del cardinale Sardi e le agenzie hanno presto fatto sapere che il cardinale Sardi era stato a colazione dal Pontefice (mentre l’articolo veniva riprovato totalmente e ufficialmente). Quanto al racconto inquietante di Gabriele, secondo cui il Papa sarebbe troppo solo e il suo entourage lo tutelerebbe dalle notizie più dolorose, «è facile manipolare la persona che ha un potere decisionale così importante», «a volte, quando sedevamo a tavola, il Papa faceva domande su cose di cui doveva essere informato» (il presidente del Tribunale non gli ha permesso di dire di più), cose che si dicevano anche al tempo di Paolo VI e Pio XII, nei giorni scorsi è stata opportunamente rimessa in circolo e ripresa dai giornali, probabilmente per iniziativa discreta della stessa struttura di comunicazione vaticana, una certa dichiarazione del 2009. Benedetto era in volo verso il Camerun e disse ai giornalisti: «Mi fa un po’ ridere questo mito della mia solitudine, in nessun modo mi sento solo, ogni giorno ricevo nelle mie visite in agenda i miei collaboratori più stretti a cominciare dal Segretario di Stato fino a tutti i capi dicastero che vedo regolarmente, ogni giorno ricevo vescovi nelle visite “ad limina”… Quindi niente solitudine, sono realmente circondato da amici». Mossa perfetta per ridurre tutta la storia del cameriere ai minimi termini.
[Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta dello Sport 7 ottobre 2012]
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