Maurizio Stefanini, Libero 7/10/2012, 7 ottobre 2012
«CRIMINALITÀ, CORRUZIONE E INEFFICIENZA COSÌ HANNO UCCISO UN PAESE RICCHISSIMO»
Si vota in Venezuela per le presidenziali, e per la prima volta dopo 14 anni alcuni sondaggi indicano che il candidato dell’opposizione Henrique Capriles Radonski potrebbe persino sconfiggere Hugo Chávez. Ma molti sono i condizionamenti che possono favorire una sua riconferma, e molti i condizionamenti che potrebbero creare problemi a un Capriles presidente. Una testimonianza in proposito viene da Giovanni Cappellin, espatriato a fare l’imprenditore in Venezuela nel 1980 dopo una laurea alla Bocconi. Appassionato di immersioni in apnea e pesca subacquea, sta pubblicando un libro autobiografico che anche nel titolo reca un evidente omaggio ai colori del mare venezuelano: «L’uomo di sale. Il mio Venezuela rosso sangue e smeraldo» (Mauro Pagliai, pagine 256, euro 10). Ma la storia che vi si racconta è in realtà drammatica. Nel luglio del 2011, infatti, durante una gita in barca col la figlia fu sequestrato per un’intera nottata di terrore da un pescatore cui poche ore prima aveva appena comprato alcune aragoste, e che gli tagliò la gola. Sopravvissuto per miracolo, Cappellin ci racconta di un Paese violento all’estremo, dove nella sola Caracas ogni fine settimana si registrano dai cinquanta agli ottanta casi di morti ammazzati in violenti scontri a fuoco. «Ormai in Venezuela, purtroppo, non sai più che è il lupo e chi la pecora. La stessa persona che ti ha venduto il giornale può accoltellarti per un orologio. E tutti i freni sociali sono saltati ».
Che significa oggi fare imprenditoria nel Venezuela di Chávez?
«Un grande imprenditore italiano tipo Impregilo o Eni, con l’ambasciata a completa disposizione, può sopravvivere bene, malgrado i ritardi cronici dei pagamenti. Ma il piccolo imprenditore, italiano o locale ha problemi sempre più grossi. La legge del lavoro è una brutta copia di tutte le più brutte copie delle leggi italiane e europee degli anni ’70, quando populismo e demagogia imperavano. E poi c’è un controllo ferreo sulle valute che è un controllo politico, e rende sempre più difficile l’accesso alle materie prime. Per cui magari io che produco vino mi devo fermare per un mese perché al mio fornitore di tappi non hanno dato i dollari per comprare la materia prima per fabbricarli. In pratica, il Venezuela si è trasformato in un’economia di porto, dove gli imprenditori stanno sparendo l’uno dopo l’altro».
Ci sono dati contrastanti sulla stampa internazionale. Da una parte, El País ha ad esempio stimato che le imprese private nei 14 anni di governo di Chávez si sono ridotte da 11.000 a 7000. Dall’altra, Le Monde in un articolo pure critico ha però affermato che il peso dell’imprenditoria privata sul Pil sarebbe aumentato.
«Non sono dati necessariamente antitetici. L’industria petrolifera in questo momento è distrutta: in un Paese che 14 anni fa produceva oltre 3 milioni di barili di petrolio al giorno, adesso staremo sui 2-2,3. E gli unici che vengono pagati sono quelli venduti agli Stati Uniti: circa 700.000. Il resto è regalato agli amici di Chávez, in testa Nicaragua, a Cuba, in cambio di allenatori sportivi e finti medici. Chiaramente, con il prezzo del petrolio schizzato alle stelle questo signore ha potuto comunque spendere la più grossa massa di soldi che sia mai entrata nella storia del Venezuela. Ma le imprese che sono state nazionalizzato sono alla frutta. Sidor, che era in mano al gruppo italo-argentino Techint dei Rocca, ha la produzione al 37% di quando l’hanno nazionalizzato, quattro anni fa. Nell’alluminio in Guyana su 300 altiforni ce ne sono solo 38 in produzione. È un Paese in stallo, come un aereo con i motori spenti. È perfettamente possibile che pur messi sempre peggio i privati guadagnino terreno rispetto a un settore pubblico in queste condizioni ».
Altri dati suggeriscono che la proporzione dell’import sui consumi sarebbe cresciuta dei due terzi.
«Appunto: distrutta l’industria nazionale, è diventata un’economia di porto. I venezuelani mangiano riso importato, carne importata, polli importati. Nessuno ha capito perché è stato nazionalizzato il 70- 80% delle torrefazioni di caffè, ma anche il caffè deve essere ora importato. Tutto il deficit è coperto dalla rendita petrolifera, con importazioni gestite da società statali senza troppi controlli, tant’è che due anni fa c’è stato lo scandalo di due miliardi di dollari di merce andata a male che ha dovuto essere buttata».
Gli imprenditori italiani hanno qualche vantaggio?
«Affatto. Anzi, è visto con un crescente astio, perché in questi ultimi anni è stata seminata l’idea che lo straniero è venuto a depredare il Paese: non a lavorare e a creare ricchezza. È stato creato un odio di classe che in Venezuela non era mai esistito, che ti fa percepire come affamatore del popolo, e che finisce per esporti anche al rischio di subire violenze».