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 2012  ottobre 07 Domenica calendario

Cari studenti il futuro lo dovete conquistare voi - L’Italia è una Repubblica fon­data sul lavoro

Cari studenti il futuro lo dovete conquistare voi - L’Italia è una Repubblica fon­data sul lavoro. Non, dunque, sul posto di lavoro quale dirit­to­ormai impropriamente urla­to bensì sul dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità, un’attività destinata al pro­gresso della società e alla singo­la autonomia economica. Certamente né i genitori, né tantomeno gli insegnanti, han­no cercato di trasmettere que­sto principio, basilare, agli stu­denti che l’altro ieri hanno manifestato in tutte le città italiane. Se così fosse stato, non ci sa­rebbero stati gli scontri violenti e volgari che hanno segnato qua­si tutti i cortei. Peraltro, in un ri­to stanco e ripetitivo, come ogni anno in ottobre, contro il «catti­vo » ministro di turno. Per quan­to fisiologicamente ci si aspetti il ribellismo delle giovani gene­razioni, che è perfino indispen­sabile alla crescita personale e della società, dispiace che que­sti gi­ovani non trovino più moti­vi innovativi di protesta e rivolu­zione. Prima di tutto, se consapevoli (?) e convinti dei pretesi tagli al­l’istruzione, gli studenti avreb­bero potuto chiedere- e forse ot­tenere dall’apparente apertura di questo governo tecnico - un confronto istituzionale. Un con­fronto per risvegliare i «vecchi», suggerire metodi nuovi, dare un senso concreto al disagio e all’in­certezza attuali. Per esempio, si sarebbero po­tuti dolere dell’inefficienza del­la scuola e degli insegnanti. Ma­gari raccontando del sistema scolastico americano, basato sulla capacità e sul merito degli istituti scolastici di formare e se­lezionare studenti così bravi da essere ammessi in certe univer­sità, note e ambite proprio per la loro particolare restrizione se­lettiva nell’accettare aspiranti alla laurea. Magari suggerendo l’opportunità che le scuole ita­liane più qualificate possano ot­tenere sovvenzioni private, co­me in America, detraibili fiscal­mente. Magari, ancora, propo­nendo la necessità della scelta severissima del corpo insegnan­te e il sistema della supervisione periodica delle singole compe­tenze (ma anche delle possibili strumentalizzazioni proprio da parte degli insegnanti) e tentan­do così di demolire l’antistorico e maligno diritto al posto fisso statale. Insomma, uno studente che, giustamente e come impone la sua età, si ribella, è credibile so­lo quando è concentrato sul­l’obiettivo di apprendere bene, se promuove il nuovo, se propo­ne il merito, se è riformatore di metodi stantii. Non lo è, se protesta ritual­mente, sguaiatamente e banal­mente contro la casta, l’austeri­tà, i tagli, le scuole private; me­scolandosi a centri sociali, no Tav, nulla facenti nel denomina­tore comune della violenza. Si onorano, invece, la genui­na insurrezione giovanile e il di­ritto allo studio, nonché la futu­ra possibilità di scegliere come lavorare, con la rivoluzione mi­rata a un ideale, non all’ideolo­gia. Consci tutti che il sangue e il sudore devono essere versati sui libri, per esempio nuovi e di­versi, o su programmi di studio alternativi, e non nelle piazze, ai danni della collettività e dei poli­ziotti che, a loro volta, hanno il dovere di impedire e reprimere la violenza e i disordini sociali. Quell’imbecille di studente che ha urlato al poliziotto «coglio­ne, sei un frustrato di merda», meriterebbe di essere bocciato ogni giorno della sua vita da ogni occasione che gli possa ca­pitare, oltre che punito ultra se­veramente da un serio magistra­to. E, se avesse studiato, sapreb­be che persino quel rivoluziona­rio di Pasolini stava dalla parte delle forze dell’ordine. Purtroppo, si sa, sono il buoni­smo e il garantismo che hanno deviato lo spirito e i valori, del singolo come della società. La la­mentela continua e indifferen­ziata finisce sempre con l’essere premiata dal pietismo. Quando il lavoro stressa, la protesta in­grassa. Se questi ragazzi - che, invece di una sana, naturale e produtti­va rivoluzione, si oppongono al sistema con insulti, confusione e violenza - sono il nostro futu­ro, rimbocchiamoci le maniche e continuiamo a lavorare ben ol­tre i già alti confini della pensio­ne. Del resto, chi ha il senso del do­vere sa che il lavoro, più che un diritto, è un destino capace del­le migliori rivoluzioni.