ENRIC JULIANA, La Stampa 7/10/2012, 7 ottobre 2012
Uno striscione con la scritta “Catalogna, il prossimo stato d’Europa”. Dietro, un milione di persone che inondano il centro di Barcellona
Uno striscione con la scritta “Catalogna, il prossimo stato d’Europa”. Dietro, un milione di persone che inondano il centro di Barcellona. 11 settembre 2012: quest’immagine ha fatto il giro del mondo, e sta introducendo un nuovo tema nell’agenda europea: l’Unione europea può accettare una modifica delle frontiere interne? Ad oggi, tutti i nuovi Stati nati dopo la seconda guerra mondiale (nei Balcani, nel Baltico, nell’anticamera della Russia, nel Caucaso, in Repubblica Ceca e Slovacca) sono sorti fuori dai confini dell’Unione. Meglio però non correre troppo. Anzitutto bisogna capire cosa sta accadendo a Barcellona. La Catalogna occupa il 6,3% della superficie della Spagna, ha il 16% della popolazione e guida la ricchezza nazionale con il 19% del Pil (200 miliardi di euro). Produce il 26% dell’attività industriale e si avvicina al 30% delle esportazioni. In compenso è solo quarta nel reddito pro capite, dietro ai Paesi Baschi, La Navarra e Madrid. Con 27.430 euro per abitante, è simile alla media dell’Italia. La crisi ha alzato tasso di disoccupazione (21,9%) e l’amministrazione regionale, la Generalitat, è la più indebitata delle autonomie spagnole. Questo perché trasferisce alla Spagna molto più di quanto non riceva (il deficit è di 16 miliardi), non riesce a finanziarsi sui mercati, e lo Stato non le paga tutto che dovrebbe. Intanto, negli ultimi otto anni - quando la Catalogna è stata governata da una coalizione di sinistra - ha aumentato la spesa sociale: quella per l’educazione si è duplicata. Ad oggi, la Generalitat è in debito di 43.954 milioni di euro, il 22% del Pil regionale. Viceversa, il Comune di Barcellona è il meno indebitato tra le grandi città spagnole. Sia come sia, la nazione catalana si sente in pericolo. È una tensione con radici antiche. Nel diciannovesimo secolo, i catalani volevano essere i piemontesi di Spagna. Il generale Joan Prim, un liberale, esiliò la regina borbonica Isabella II per rafforzare una nuova monarchia costituzionale. Quando, nel 1871, re Amedeo I sbarcò in Spagna, Prim venne assassinato a Madrid. Agli inizi del ventesimo secolo la borghesia catalana riuscì a formare un governo regionale (la Mancomunitat), annullato poi dal generale Primo de Rivera nel 1925. I catalani formarono la colonna portante della Seconda Repubblica e ottennero, nel 1931, uno statuto che garantiva l’autonomia. Questo venne però abrogato da Franco nel 1939. Il “caudillo” considerava la questione catalana il vero cancro spagnolo e negli anni ’40 arrivò a proibire l’uso pubblico della lingua catalana. Fu un errore gravissimo, così come lo fu quello analogo compiuto nei Paesi Baschi. La Catalogna si convertì nel principale focolaio di resistenza alla dittatura e nel 1977 centinaia di migliaia di catalani scesero in strada per chiedere il ritorno all’autonomia. Per normalizzare la situazione, Adolfo Suárez – primo presidente della Spagna democratica – fece ritornare in Spagna Josep Tarradellas, il governatore della Generalitat in esilio. Si pensava a una soluzione all’italiana: tre autonomie speciali (Catalogna, Paesi Baschi e Galizia) e altre regioni senza capacità legislativa autonoma. Ma i socialisti, desiderosi di indebolire il partito centralista di Suárez, issarono la bandiera dell’Andalusia, la grande regione del Sud. Lì si complicò tutto: nessuno volle essere da meno. La Spagna si convertì in uno strano Stato semi-federale con 17 regioni autonome (la Germania ha solo 15 Lander), 17 governi regionali e altrettante amministrazioni sovradimensionate. Una follia di cui oggi paghiamo i costi. Le autonomie amministrano buona parte del welfare e si finanziano attraverso un sistema di partecipazione alle tasse statali. Ma la crisi ha fatto crollare le entrate fiscali di oltre il 30% e la spesa sociale non può ridursi altrettanto senza il rischio di una rivolta popolare. Le autonomie perdono appoggio sociale e le loro spese appaiono all’opinione pubblica come esempi di “cattiva politica”. I catalani, d’altra parte, sono affezionati all’autogoverno. Se l’esecutivo decidesse di chiudere la metà dei parlamenti regionali, quasi nessuno protesterebbe. Ma se chiudesse il “Parlament” catalano, un milione di persone scenderebbe in piazza. Anche se si chiudesse il parlamento basco, le proteste sarebbero imponenti. Questo è il problema. La Spagna sta tornando al 1977: il nodo è cosa fare con la Catalogna e i Paesi Baschi. Il giorno di Natale il menù spagnolo sarà il seguente: una crisi grave e maggioranze autonomiste o quasi indipendentiste nel parlamento catalano e quello basco. C’è un aspetto positivo: il terrorismo dell’Eta è scomparso. La maggioranza dei catalani desidera l’indipendenza? Probabilmente ancora non è arrivato questo momento. «Indipendenza» è oggi, per molti, un grido di protesta. La maggioranza dei catalani vuole una maggiore equità fiscale. I baschi hanno uno statuto molto vantaggioso, Madrid gode dei benefici di di città capitale, le sovvenzioni alle regioni del Sud non possono essere messe in discussione. I catalani gridano all’indipendenza, ma anche le altre regioni mediterranee (Valencia e le Baleari) cominciano a lamentarsi. Il 25 novembre ci saranno le elezioni in Catalogna. Quel giorno avremo un’immagine più precisa. In Spagna sta giungendo a termine il ciclo iniziato nel ’77: il paese deve reinventarsi.