Guido Vitiello, la Lettura (Corriere della Sera) 07/10/2012, 7 ottobre 2012
TUTTE LE IDIOZIE DELLA NEOLINGUA GIUSTIZIALISTA
Il poeta è un giudice, diceva Walt Whitman, ancorché segua un rito tutto suo: «Non giudica come giudicano i giudici, ma come il sole che piove intorno a un oggetto inerte». Deve avvolgere le cose con lo sguardo, scrutarle da ogni lato prima di emettere la sentenza del verso. La filosofa Martha Nussbaum pensa che sia vero anche il reciproco: il giudice deve farsi poeta, o quanto meno romanziere, e immaginarsi nelle vesti di coloro che dovrà giudicare. Così suggerisce in un libro appena uscito da Mimesis, Giustizia poetica (pp. 192, 16), ma non sempre i consigli sono facili da esportare. In Italia, quando pensiamo alla giustizia poetica, vengono in mente il feuilleton a puntate sulla trattativa Stato-mafia, la telenovela del Guatemala, la cronaca nera romanzata dai talk show: c’è già troppa cattiva letteratura per aggiungerne altra. Ma soprattutto, la febbre forcaiola ha generato una sua perversa forma di poesia, dando a parole antiche significati nuovi.
Inquisito, per esempio, era quasi una bella parola. Giorgio Saviane ne fece il titolo (e il protagonista) di un romanzo, nel 1961: L’inquisito, appunto. Ma quando, al culmine di Mani pulite, ne apparve una nuova edizione, si intuiva subito che l’aria era cambiata. C’erano l’introduzione di un alto magistrato — quasi un imprimatur ecclesiastico — e una prefazione tutta contrita in cui Saviane per poco non si scusava di aver nobilitato il termine: «Non rischiamo di far diventare eroi i ribaldi politici (…): altro che inquisiti! protetti erano e quindi la loro azione deve rimanere vergognosa». Oggi la parola si confonde tra altre — indagato, imputato, condannato — che per gli infebbrati non sono che sfumature di un solo colore. E alla lista, buon ultimo, si è aggiunto «prescritto», che a rigore dovrebbe riguardare un reato, o tutt’al più un antibiotico, e invece è il marchio d’infamia di chi della prescrizione si avvantaggia; e tanto valeva dire proscritto.
Quanti e quali capovolgimenti ha portato la neolingua forcaiola! «Il 1984 di Orwell può anche, da noi, assumere specie giudiziaria. Ce ne sono i presentimenti, gli avvisi», vaticinava Leonardo Sciascia. Gli avvisi, appunto: avviso di garanzia indica oggi l’atto con cui si notifica al cittadino la sospensione di ogni garanzia, il corno da caccia che dà il via all’agguato mediatico-giudiziario, proprio come il ministero della pace orwelliano si occupava della guerra. A tal punto è stravolto il linguaggio con cui parliamo di giustizia che ci vorrebbe un Karl Kraus per coglierne le mostruosità, un Flaubert per compilarne lo sciocchezzaio. La via crucis giudiziaria è costeggiata di luoghi comuni tutt’altro che poetici. Già insieme alle manette tintinna la prima idiozia: «Se lo arrestano, qualcosa avrà pur fatto». Con la custodia cautelare arriva la seconda, più crudele: «Buttare la chiave, dovrebbero!». C’è poi il processo, dove alcuni lamentano le lentezze della procedura, prendono diritti per cavilli (che è come dire fischi per fiaschi), e ripetono una terza balordaggine: «Qui c’è garantismo solo per i colpevoli, mai per le vittime!». O quest’altra, che ha quasi del genio: «Io sarei pure garantista, ma in Italia ci sono troppi farabutti». E se i tre gradi di giudizio culminano con un’assoluzione, stanno in agguato altri luoghi comuni: «Se non è lui, allora chi è stato?». I giornali, puntualmente, titoleranno: «Un delitto senza autori», che è come dire che, siccome ci siamo sbagliati per secoli ad attribuirlo a Longino, il trattato Del sublime non lo ha scritto nessuno.
C’è poi la neolingua dei magistrati, con le sue parole-totem. «Emergenza», per esempio. Che vorrà mai dire? Ogni reato è per definizione un’emergenza, ricorda Mauro Mellini, una rottura del corso normale delle cose. La giustizia d’emergenza, dunque, nel migliore dei casi è una tautologia, nel peggiore un eufemismo per giustizia sommaria. Ma più avvilente di tutti è il gergo burocratico. Piero Calamandrei temeva che l’insensibilità alle angosce dei processati s’insediasse nell’iter giudiziario: «Guai se anche in questo itinerario entrasse la psicologia burocratica della "pratica scaricata"!». Oggi i magistrati non parlano di scaricare ma di «smaltire», un verbo che, ricorda sempre Mellini, si usa solo per i processi e per la spazzatura. Ed è questa, la nostra perversa poesia: «Vostro onore, che ne sarà della mia vita?». «Abbia pazienza, prima di lei devo smaltirne altri tre».
Guido Vitiello