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 2012  ottobre 07 Domenica calendario

SCRIVERE E POI DISTRUGGERE

Mio padre mi diceva spesso: non bisogna mai correre dietro alle donne e alle ipotesi: ne vengono sempre delle altre. A parte il maschilismo del primo assunto, per ciò che riguarda l’incessante avvicendarsi di ipotesi nella mente umana invece si può essere, penso, d’accordo. Qui vorrei fare un ragionamento che riguarda la destinazione di un’opera letteraria e del perché alcuni scrittori hanno avuto l’impulso di distruggere le opere scritte da loro. Scrivere non solo alla ricerca del successo immediato, dell’approvazione universale del momento, ma per scopi completamente diversi può essere del tutto comprensibile, e quindi l’aver già scritto e non essere soddisfatti, può anche trasformarsi in un tormento.
Tolstoj ha fatto nove stesure di Guerra e Pace. La moglie le ha tutte ricopiate a mano. Che eroina, o che vittima! Quel libro è di ottocento pagine. Tolstoj sicuramente non voleva prolungare fino all’ultimo istante di vita il suo lavoro, tutt’altro. Voleva agire sulla coscienza dei suoi contemporanei, aveva l’ambizione di migliorare l’essere umano. Per questo il suo libro doveva corrispondere perfettamente alle sue intenzioni. E così, dopo la prima versione ritrovata di recente tutte le successive edizioni differivano una dall’altra e da quella originaria in qualcosa.
Ma il caso di Kafka, per esempio era senz’altro diverso. Stando a certi reperti, lettere, biglietti, Kafka era deciso ad annientare fino all’ultima pagina tutto ciò che aveva scritto. Com’è accaduto questo? Era malato, vicino alla morte. Ha pregato l’amico Max Brod di bruciare i manoscritti in suo possesso. Un rogo terribile. Perché voleva far questo, quell’uomo così intelligente, che vedeva così lontano? Oltre allo scrupolo, all’insoddisfazione, ai dubbi, che cosa poteva rodere la sua mente per indurlo a una tale decisione? Probabilmente Kafka era tormentato da uno dei moti interiori più imperiosi dell’ebraismo (e anche del cristianesimo) : dal senso di colpa. Dalla vergogna. Scrivere può significare rendersi colpevoli. Almeno per persone che sentano la responsabilità con quello scrupolo morale che poteva animare Kafka, o anche, per dire, Flaubert. Tutto il Novecento europeo è pervaso da questo sentimento. Su esso è stato eretto l’enorme edificio della psicoanalisi costruito da Sigmund Freud. Per una persona conscia di quale possa essere l’effetto di un libro sul pubblico, l’autoaccusa, il pentimento, il rimorso, la vergogna per la propria pochezza, non sono cose lievi: il caso di Kafka in questo ambito è uno dei più tragici. Ma resta comunque il mistero del perché non ha distrutto lui stesso i suoi manoscritti, finché era in condizioni di farlo. Perché, all’apparenza, con viltà, ha dato questo compito a Max Brod, suo amico? Possibile risposta: non voleva sopravvivere alle proprie opere, cosa che può accadere solo a Dio.
Ma c’è un altro scrupolo: il senso di colpa della società borghese, dove il padre,il portatore delle regole regna su tutta la famiglia. Nel racconto La condanna il figlio accetta di essere punito con la morte per acqua inflittagli dal padre, ed esegue lui stesso la sentenza: corre a scavalcare una spalletta e si getta nel fiume. Kafka con il suo ebraismo meditato e sofferto ha scelto per le proprie opere un boia: il suo migliore amico. Lo ha messo di fronte al dilemma se eseguire la condanna o contravvenire alla volontà del morente. Max Brod non ha bruciato i manoscritti. Privare l’umanità di quei capolavori secondo Brod sarebbe stato disonesto, dannoso, criminale. E lui non voleva commettere questo crimine. Ma anche l’esempio di non seguire il desiderio del moribondo è stato un malefatto. Ognuno valuti per sé il valore della soluzione adottata da Max Brod. Io, personalmente non l’approvo!
Ma a proposito di senso di colpa: non è questo che distingue l’uomo dall’animale? Il senso di colpa non esiste, per quello che sappiamo, tra gli animali. Questi uccidono, depredano, divorano seguendo l’istinto. Il senso di colpa, ha invece salvato gli esseri umani, assicurando la persistenza della loro specie sulla Terra. Senza quel sentimento la Storia sarebbe stata soltanto un interminabile massacro e niente altro.
Per quello che riguarda la destinazione dei libri vale la pena di citare il parere di Kafka: «Se il libro che stiamo leggendo non ci sveglia come un pugno in testa, perché mai lo leggiamo? Perché ci rende felici? Mio Dio, saremmo felici lo stesso, anche senza i libri, o i libri che ci rendono felici potremmo all’occorrenza scriverli da soli. Un libro deve essere un’ascia per tagliare il mare di ghiaccio dell’indifferenza che c’è dentro di noi».
Ma prendiamo altri due casi, tra i molti, completamente differenti da quello di Kafka. Uno è quello di Gogol che ha bruciato l’ultimo volume del romanzo in tre parti Le anime morte, e l’altro quello di Arnold Schonberg che ha lasciato incompiuto il terzo atto del suo capolavoro, l’opera lirica Mosè e Aronne. Perché hanno agito così questi due artisti? Si possono fare soltanto congetture. Io ne azzardo una: Gogol ha bruciato il terzo volume, che doveva essere come Il Paradiso della Divina Commedia, perché non credeva che la Russia, il cui simbolo era per lui la famosa Troika che corre nella pianura innevata, corresse verso il bene, verso il meglio.. Non credeva più a un possibile Paradiso, a un bene diffuso sulle sterminate steppe della sua terra. Che cosa possiamo dire oggi, guardando la storia della Russia di questo secolo?
Quanto a Schonberg, aveva finito il secondo atto della sua opera prima dello scoppio della seconda Guerra mondiale. Dopo Auschwitz, un soggetto così solenne, con la fede stessa al centro di esso, non poteva essere completato che a costo di terribili, inumani dubbi e sofferenze. Schonberg, secondo me, non aveva più la possibilità di sostenere questa lotta interiore per darsi una risposta soddisfacente alla domanda: perché l’Eterno ha permesso questo?
Gli scrittori di oggi per lo più non hanno sensi di colpa e questo la dice tutta su tanti best seller dei nostri tempi.