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 2012  ottobre 07 Domenica calendario

E IL SANGUE DEI VINTI DIVENNE UNA PIOGGIA ROSSA [A

quasi dieci anni dal celebre bestseller, il giornalista torna a raccontare gli orrori della guerra civile. Distruggendo la leggenda della superiorità morale partigiana] –
Questo libro va contro una leggenda che resiste inalterata da un’infinità di anni. La leggenda sostiene che esistano guerre sporche e guerre pulite. La mia opinione è diversa: tutti i conflitti armati sono sporchi delle vite sottratte (...) a chi vi partecipa o ne rimane coinvolto. In ogni caso, su entrambe le parti in lotta cade sempre una pioggia rossa: una pioggia di sangue. Da dove mi arriva questa immagine? Anni fa avevo scritto un libro su un personaggio quasi sconosciuto: il sardo Andrea Scano, un partigiano comunista espatriato di nascosto in Jugoslavia dopo la conclusione della guerra civile. Era ricercato dai carabinieri perché raccoglieva armi e munizioni in vista di una rivoluzione proletaria. Dopo essere vissuto da latitante a Fiume, ormai diventata una città jugoslava, era finito nel gulag più orrendo del maresciallo Tito, quello creato a Goli Otok, l’Isola Calva. E qui era rimasto per tre anni, torturato da una sequenza infinita di orrori.
Scano era un poeta dilettante e non aveva mai pubblicato nulla. Una delle poesie in cui mi ero imbattuto diceva a proposito di quel campo di sterminio: «Guarda il cielo e copriti, una pioggia di sangue potrebbe bagnarti, una pioggia di sangue sull’isola cadrà». Il povero poeta ricorreva a quell’immagine per descrivere le guerre che aveva attraversato. La guerra civile in Spagna, combattuta da militante di terza o quarta fila in una Brigata internazionale. Poi la guerra civile italiana, iniziata da terrorista dei Gap, i guerriglieri di città mandati in azione dal Pci. Infine la guerra ideologica che divideva l’Europa e che per Scano si era risolta nella lunga prigionia dentro l’inferno di Goli Otok. Un comunista ridotto in schiavitù da altri comunisti.
La sua storia, pubblicata nel 2004 con il titolo Prigionieri del silenzio, mi confermò che avevo fatto bene a scrivere Il sangue dei vinti, uscito l’anno precedente. Quel libro aveva prodotto due mutamenti profondi nel mio percorso di narratore della guerra civile. Innanzitutto mi aveva condotto all’incontro con una parte della società italiana che conoscevo poco e da lontano: il mondo dei fascisti sconfitti.
Qui ricorderò soltanto che quel mondo mi ha adottato, anche se non appartengo alla cultura della destra neofascista. Dal 2003 a oggi ho ricevuto ventimila lettere che, nel confidarmi storie che ignoravo, mi attribuivano il merito di aver sottratto all’obbligo di tacere un’infinità di persone che la boria dei vincitori aveva dichiarato inesistenti. Il secondo mutamento è stato ancora più radicale emi ha spinto a rivedere, o a revisionare, il canone primario al quale mi ero sempre attenuto. Quel canone aveva la forza di una regola ferrea: i partigiani non erano uguali ai fascisti. I primi combattevano per la libertà, i secondi per una dittatura. I primi erano tutti combattenti in guanti bianchi, i secondi dei malvagi capaci di qualsiasi nefandezza.
Due dittature
Poco per volta mi sono reso conto che non era affatto così. Tanto i partigiani comunisti che i miliziani fascisti combattevano per la bandiera di due dittature, una rossa e l’altra nera. Le loro ideologie erano entrambe autoritarie. E li spingevano a fanatismi opposti, uguali pur essendo contrari. Ma prima ancora delle loro fedeltà politiche venivano i comportamenti tenuti giorno per giorno nel grande incendio della guerra civile.
Era un tipo di conflitto che escludeva la pietà e rendeva fatale qualunque violenza, anche la più atroce. Pure i partigiani avevano ucciso persone innocenti e inermi sulla base di semplici sospetti, spesso infondati, o sotto la spinta di un cieco odio ideologico. Avevano provocato le rappresaglie dei tedeschi, sparando e poi fuggendo. Avevano torturato i fascisti catturati prima di sopprimerli. E quando si trattava di donne, si erano concessi il lusso di tutte le soldataglie: lo stupro, spesso di gruppo.
Senza zone d’ombra
A conti fatti, anche la Resistenza si era macchiata di orrori. Quelli che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ricorderà nel suo primo messaggio al Parlamento, il 16 maggio 2006, con tre parole senza scampo: «Zone d’ombra, eccessi, aberrazioni». Un’eredità pesante, tenuta nascosta per decenni da un insieme di complicità. L’opportunismo politico che imponeva di esaltare sempre e comunque la lotta partigiana. Il predominio culturale e organizzativo del Pci, regista di un’operazione al tempo stesso retorica e bugiarda. La passività degli altri partiti antifascisti, timorosi di scontrarsi con la poderosa macchina comunista, la sua propaganda, la sua energia nel replicare colpo su colpo. Soltanto una piccola frazione della classe dirigente italiana si è posta il problema di capire che cosa si nascondeva dietro il sipario di una storia contraffatta della nostra guerra civile. E ha iniziato a farsi delle domande a proposito del protagonista assoluto della Resistenza: i comunisti.
Ancora oggi, nel 2012, qualcuno si affanna a dimostrare che a scendere in campo contro tedeschi e fascisti è stato un complesso di forze che comprendeva pure soggetti moderati: militari, cattolici, liberali, persino figure anticomuniste come Edgardo Sogno. È vero: c’erano anche loro nel blocco del Corpo volontari della libertà. Ma si è trattato sempre di minoranze, a volte di piccole schegge. Impotenti a contrastare la voglia di egemonia del Pci e i comportamenti che ne derivavano.
Del resto, i comunisti perseguivano un disegno preciso e potente che si è manifestato subito, quando ancora la Resistenza muoveva i primi passi. Volevano essere la forza numero uno della guerra di liberazione. Un conflitto che per loro rappresentava soltanto il primo tempo di un passaggio storico: fare dell’Italia uscita dalla guerra una democrazia popolare schierata con l’Unione Sovietica. Come questo traguardo sia diventato evidente e quali effetti abbia prodotto ho cercato di spiegarlo in più di una pagina di questo libro. Dopo il 25 aprile 1945 le domande sulle vere intenzioni dei comunisti italiani si sono moltiplicate, diventando sempre più allarmate. Mi riferisco ad aree ristrette dell’opinione pubblica antifascista. La grande maggioranza della popolazione si preoccupava soltanto di sopravvivere. Con l’obiettivo di ritornare a un’esistenza normale, trovare un lavoro e conquistare un minimo di benessere. Piccoli tesori perduti nei cinque anni di guerra.
Ma le élite si chiedevano anche dell’altro. Sospinte dal timore che il dopoguerra italiano avesse un regista e un attore senza concorrenti, si interrogavano sul futuro dell’Italia appena liberata. Sarebbe divenuta una democrazia parlamentare oppure il suo destino era di subire una seconda guerra civile scatenata dai comunisti, per poi cadere nelle grinfie di un regime staliniano? Era una paura fondata su quel che si sapeva della guerra civile spagnola. Nel 1945 non era molto, ma quanto si conosceva bastava a far emergere prospettive inquietanti. Anche in Spagna era esistita una coalizione di forze politiche a sostegno della repubblica aggredita dal nazionalismo fascista del generale Francisco Franco. Ma i comunisti iberici, affiancati, sostenuti e incoraggiati dai consiglieri sovietici inviati da Stalin in quell’area di guerra, avevano subito cercato di prevalere sull’insieme dei partiti repubblicani, raccolti nel Fronte popolare.
A poco a poco era emerso un inferno di illegalità spaventose. Arresti arbitrari. Tribunali segreti. Delitti politici brutali. Carceri clandestine dove i detenuti venivano torturati e poi fatti sparire. Assassinii destinati ad annientare alleati considerati nemici. Il più clamoroso fu il sequestro e la scomparsa di Andreu Nin, il leader del Poum, il Partito operaio di unificazione marxista. Il Poum era un piccolo partito nel quale militava anche George Orwell, lo scrittore inglese poi diventato famoso per Omaggio alla Catalogna, La fattoria degli animali e 1984. Orwell aveva 34 anni, era molto alto, magrissimo, sgraziato, con una faccia da cavallo. Era arrivato a Barcellona da Londra alla fine del 1936. Una fotografia lo ritrae al fondo di una piccola colonna di miliziani del Poum. Una cinquantina di uomini, preceduti da un bandierone rosso con la falce e martello, la sigla del partito e la scritta «Caserma Lenin», la base dell’addestramento.
Orwell stava sul fronte di Huesca quando i comunisti e i servizi segreti sovietici decisero la fine del Poum. Lo consideravano legato a Lev Davidovic? Trotsky, il capo bolscevico di ventato nemico di Stalin. In realtà era soltanto un gruppuscolo antistaliniano con 10 mila iscritti. L’operazione per distruggerlo venne ordita e condotta da Aleksandr Orlov, il nuovo console generale dell’Urss a Barcellona, ma di fatto il capo della filiale spagnola del Nkvd, la polizia segreta sovietica. Nel giugno 1937, un decreto del governo repubblicano guidato dal socialista di destra Juan Negrín, succube dei comunisti, dichiarò fuori legge il Poum, sospettato a torto di cospirare con i nazionalisti di Franco. Tutti i dirigenti furono imprigionati. Se qualcuno non veniva rintracciato, toccava alla moglie finire in carcere. Gli arrestati si trovarono nelle mani del Nkvd che li rinchiuse in una prigione segreta, una chiesa sconsacrata di Madrid. Interrogato e torturato per quattro giorni, Nin rifiutò di firmare l’accusa assurda che gli veniva rivolta: l’aver comunicato via radio al nemico nazionalista gli obiettivi da colpire con l’artiglieria. Gli sgherri di Orlov lo trasportarono in una villa fuori città. Qui misero in scena una finzione grottesca: la liberazione di Nin per opera di un commando di agenti della Gestapo nazista, incaricati da Hitler di salvare il leader del Poum. Ma si trattava soltanto di miliziani tedeschi di una Brigata internazionale, al servizio di Orlov. Nin scomparve, ucciso di nascosto e sepolto in un luogo rimasto segreto per sempre. E come lui, tutti i suoi seguaci svanirono nel nulla. Quanto accadeva in Spagna fu determinante per la svolta ideologica di uno scrittore americano di sinistra, John Dos Passos. Scrisse: «Ciò che vidi mi provocò una totale disillusione rispetto al comunismo e all’Unione Sovietica. Il governo di Mosca dirigeva in Spagna delle bande di assassini che ammazzavano senza pietà chiunque ostacolasse il cammino dei comunisti. Subito dopo infangavano la reputazione delle loro vittime con una serie di calunnie».
Le stesse infamie, sia pure su scala ridotta, vennero commesse in Italia da bande armate del Pci, durante e dopo la guerra civile, come racconta questo libro. La sarabanda di delitti, sequestri e diffamazioni rafforzò nella borghesia, anche in quella meno conservatrice, la convinzione che fosse indispensabile tenere i comunisti lontani dal governo del Paese. Nascono di qui i giudizi espressi dal protagonista di La guerra sporca: il farmacista Evasio Z. È lui che, in un dialogo continuo con il nipote Enrico, narra il dramma italiano nella guerra dei cinque anni, tra il 1940 e il 1945. E nei primi mesi di una pace molto incerta, anch’essa coperta di sangue. I personaggi di questo racconto sono tanti e hanno un profilo sempre diverso. Ci sono figure storiche, per primo Benito Mussolini. Un dittatore velleitario emeno feroce di Adolf Hitler, ma capace di molti errori. A cominciare da quello disastroso che lo perderà: trascinare l’Italia in un conflitto mondiale che un Paese povero come il nostro non era in grado di affrontare.
La condanna a morte
Vennero mandati a morire decine di migliaia di ragazzi in divisa su una quantità assurda di fronti: Francia, Grecia, Russia, Jugoslavia, Africa orientale e settentrionale. Con una scelta criminale che getterà le basi per il crollo del regime fascista e della successiva guerra civile.
Un’altra colpa di Mussolini fu di varare le leggi razziali contro gli ebrei. Voleva imitare Hitler e simacchiò di un’infamia senza attenuanti. Quando il regime era già caduto e al suo posto esisteva la piccola Repubblica sociale, il Duce decise la razzia degli ebrei rimasti nell’Italia occupata dai tedeschi. Vennero deportati nei campi di sterminio nazisti e più di settemila furono uccisi con il gas e poi bruciati nei forni crematori.
Accanto alle figure pubbliche ci sono i piccoli protagonisti di tante vicende che attraversano la storia più grande e la completano, la arricchiscono, la spiegano. Sul loro conto avevo ascoltato molti racconti durante l’infanzia e l’adolescenza, soprattutto da mia nonna Caterina e da mia madre Giovanna. In quell’epoca, gli anni Quaranta, nelle famiglie si parlava molto. La televisione non esisteva. La radio, quando c’era, serviva soltanto per ascoltare musica leggera o le opere liriche. Prevaleva su tutto la tradizione orale. Di solito molto schietta e senza ipocrisie. Accadeva soprattutto di sera, dopo la cena, quando la platea famigliare si allargava per l’arrivo dei parenti e dei vicini di casa. Ecco un tesoro che, nell’età anziana, la memoria mi restituisce di continuo. E mi consente di ricordare e disegnare il ritratto di un tempo scomparso. Alcune di queste storie nascono dalla mia fantasia? In parte sì. Ma tutte, quelle vere, le mezze vere e le immaginarie, mi hanno aiutato a narrare le vicende della prima, grande vittima della guerra: i civili. Sono loro ad aver sofferto più di tutti, spesso uccisi nelle loro case, in territori straziati da un’infinità di distruzioni, brutalità, stragi, violenze fisiche e morali. Erano soldati senza divisa, compresi le donne, gli anziani e i bambini. La loro vita stava appesa a un filo, immersa nella paura che si rinnovava giorno dopo giorno. A insidiare i civili esisteva una moltitudine di nemici. I bombardamenti aerei angloamericani. Le rappresaglie tedesche. La fame e la miseria, flagelli che si ritenevano sconfitti per sempre. Il disordine sociale che sgretola qualunque sistema di vita. L’aumento della criminalità e dei suoi delitti. Il dilagare della prostituzione. E infine quella guerra civile spietata, proseguita ben oltre la conclusione delle ostilità fra gli stati che si erano combattuti in mezzo mondo.
La guerra sporca racconta un’Italia che ho conosciuto da vicino perché mi ha visto crescere. La città senza nome che fa da sfondo al racconto assomiglia a quella dove sono vissuto sino ai venticinque anni, ma non è la mia. La mamma di Enrico, la signora Luisa proprietaria di un negozio di mode, può ricordare mia madre Giovanna, però non è lei. Il dottor Evasio, il farmacista con la funzione del narratore, è una figura inventata, come Lina, la sarta. Il nipote Enrico non sono io, anche se le domande che rivolge di continuo allo zio Evasio riflettono l’innata curiosità che anche da ragazzino mi spingeva a interrogare gli adulti.
Il nostro futuro
Tutto il resto è vero o verosimile. Non soltanto le infinite tragedie che soffocano una nazione in guerra. Ma anche la piccola vita di tanti esseri umani ignorati dalla grande storia militare e politica: i sacrifici, l’abnegazione, la cattiveria, i lutti, gli amori, il sesso, le vendette. Tutto ricorderà ai lettori la difficile arte di campare che ha salvato tante famiglie fra il 1940 e il 1945, durante la guerra dei cinque anni. Anche oggi, in questo autunno 2012, siamo immersi in un conflitto senza tregua. A bombardarci non sono le Fortezze volanti, ma i mercati finanziari internazionali.
E, soprattutto, i nostri inguaribili difetti: il vizio di dividerci, il piacere malato per la rissa, l’impotenza a decidere. La guerra raccontata in queste pagine sappiamo come si è conclusa. Quella di oggi ha un finale ancora ignoto che può diventare un incubo.

COSÌ MUORE UNA «SPIA FASCISTA» [L’amore impossibile di Anna, iscritta al Pfr, con il partigiano Pietro Sfuggiti ai camerati per finire nelle mani senza pietà dei comunisti] –
Anna C. era la ragazza fascista. Una maestra elementare di 22 anni, alta, bionda, occhi azzurri, con un viso da madonna e dal contegno riservato. Il suo corpo, invece, era da schianto. Aveva un seno prorompente, fianchi ben torniti, gambe muscolose, caviglie sottili. Assomigliava alle donne di un disegnatore alla moda, Gino Boccasile: le signorine Grandi Firme. Nel volto da ragazza perbene spiccava una bocca sensuale, le labbra perfette, con un contorno accentuato dal rossetto. A renderla ancora più attraente era la castità. Molti non ci credevano, ma Anna era illibata, pudica e senza malizia. La famiglia veniva ritenuta tra le più religiose della città. Il padre dirigeva l’anagrafe comunale. La madre insegnava matematica al liceo scientifico. Tutte le domeniche andavano alla messa grande in Duomo, quella delle undici, celebrata dal vescovo. (...)
Una scelta pericolosa
Quando ebbe inizio la guerra civile, Anna volle subito iscriversi al Partito fascista repubblicano. I genitori cercarono di dissuaderla. Era la loro unica figlia e volevano preservarla dalla tempesta che sentivano imminente. Ma i tentativi dei famigliari fallirono. Anna era una fascista convinta. E spiegò ai suoi che aveva il dovere di stare a fianco dei camerati che difendevano la patria dagli inglesi, dagli americani, dai sovietici e dai ribelli comunisti al soldo di Mosca. In quel momento, era il novembre 1943, non esisteva ancora il corpo delle Ausiliarie. Ma il segretario del fascio cittadino accolse Anna a braccia aperte. Era un commerciante sui cinquant’anni, già squadrista, rimasto sempre fedele a Mussolini. Non aveva mai messo in mostra fanatismi né eccessi violenti. E si era mantenuto così pure in un’epoca dove la voglia di uccidere l’avversario sembrava diventata la prima fra le virtù.
La ragazza continuò a insegnare alle elementari e cominciò a passare il tempo libero nella sede del Pfr. Qui pensarono di utilizzarla nell’assistenza ai militari che avevano aderito alla repubblica. E nelle opere di beneficenza del partito, come la Befana fascista e l’aiuto alle famiglie bisognose. Tra i suoi incarichi ci fu anche quello di visitare ogni settimana il carcere giudiziario della città. Era una prigione piccola, a pochi passi dal centro, sul limite dei vasti giardini pubblici. Vi stavano rinchiusi delinquenti di mezza tacca. Ladri, ricettatori, borsaneristi pizzicati mentre trafficavano.
Insieme a loro, si trovavano quattro o cinque detenuti politici. Erano partigiani o renitenti alla leva, catturati dalla Guardia nazionale repubblicana. Avevano la sorte segnata: prima o poi li avrebbero deportati in Germania. E si sapeva quale destino avrebbero incontrato. Anna andò a visitare anche loro. Ma si rese subito conto che la sua presenza non era per niente gradita. Veniva accolta in malo modo, con insulti e risate di scherno. Non mancavano mai le proposte indecenti e i gesti volgari. La ragazza faceva di tutto per non eccitarli. Indossava grembiuloni grigi, senza forma. Però neppure questo era servito.
Soltanto uno dei detenuti politici la ricevette in modo diverso. Era un partigiano piccolino, magro, con l’aspetto dell’adolescente, anche se spiegò ad Anna di avere 21 anni. Il suo stato spaventò la ragazza. Durante o dopo la cattura, l’avevano pestato senza misericordia. Lo si capiva dal viso, ancora gonfio per le botte. E dalla difficoltà nel restare ritto in piedi. Disse ad Anna di chiamarsi Pietro S. e di essere originario della provincia di Napoli. L’armistizio dell’8 settembre l’aveva sorpreso mentre era sotto le armi, in un reparto di fanteria stanziato ad Alessandria. Dopo essersi nascosto per un paio di mesi, si era aggregato a una delle prime bande della Garibaldi. Di fare il ribelle non gli importava, però non poteva neppure ritornare al proprio paese, ormai al di là del fronte.
Dopo le prime visite di Anna, il ragazzo le confessò di vivere nel terrore che lo spedissero in un lager tedesco. Immaginava che lì avrebbe incontrato una fine lenta, tra sofferenze atroci: la fame, la sete, la perdita di ogni volontà, la scomparsa della sua dignità di essere umano.
Quando Anna entrava nella cella, Pietro scoppiava in lacrime. Un giorno la pregò di procurargli del veleno per uccidersi. Lei si rifiutò. Allora il partigiano cominciò a implorarla di farlo uscire dalla prigione. Anna replicò che era una proposta folle. Il ragazzo le urlò: «Se è così, lasciami perdere, non venire più a visitarmi!». Anna non disse nulla a nessuno. Ma continuò a pensare al partigiano e alla sua disperazione. Il pensiero divenne una costante fissa delle proprie giornate. Anche prima di addormentarsi, vincendo l’ansia da ragazza inerme in un mondo pieno di cattiveria, rifletteva sulla richiesta di Pietro. E alla fine maturò una decisione: doveva aiutarlo a fuggire dal carcere.
Sparire per sempre
Poiché non era una sciocca, Anna sapeva che, se fosse riuscita nell’intento, anche lei avrebbe dovuto sparire. Lasciando l’esistenza di sempre e gettando i genitori nello sconforto. E forse alle prese con una ritorsione violenta dei suoi camerati, pazzi di rabbia per essere stati traditi. Poi si chiese perché le importasse tanto la salvezza di quel ribelle. E si diede una risposta: senza rendersene conto, giorno dopo giorno si era innamorata di lui. Prima di allora non aveva mai conosciuto l’amore. Adesso l’aveva incontrato nella condizione più difficile. (...)
Anna ideò un piano di fuga molto semplice. Aveva notato che i tre militi di guardia alla prigione si davano il cambio verso le nove di sera, quando era già buio. Il carcere restava sguarnito per cinque minuti. Non avrebbe dovuto esserlo, ma la città era sempre stata tranquilla, un luogo dove non accadeva mai nulla. La ragazza s’impadronì delle chiavi che aprivano le celle. E una sera del maggio 1944 fece uscire Pietro. Lo trascinò fuori e lo spinse sul retro della prigione, dove aveva nascosto due biciclette. Le inforcarono e sparirono dentro i grandi giardini pubblici, in quell’ora deserti. Poi presero una strada secondaria che portava alle colline.
Pedalarono come forsennati, lei con il cuore in gola, lui pazzo di felicità. Pietro sapeva dove dirigersi perché la banda partigiana stava accampata in una località non lontana. Verso la mezzanotte arrivarono a una piccola cascina isolata. Pietro bussò, gridò il suo nomee un contadino gli aprì. Doveva conoscere il ragazzo perché lo abbracciò e lo fece entrare insieme ad Anna. L’uomo non gli rivolse domande sul conto della bellezza bionda che lo accompagnava. Diede da mangiare a entrambi. Poi li guidò in un angolo della soffitta dove era sistemato un pagliericcio. Fu alla luce flebile di una lampada a petrolio che Anna e Pietro si amarono. Lei confessò al ragazzo di essere vergine e lui la trattò con delicatezza. Si addormentarono verso l’alba, spossati.
La ragazza comprese di essere felice come non lo era mai stata. E ringraziò la Madonna per averle dato il coraggio di compiere quel passo, così intenso e bello. Il brutto emerse il giorno dopo, quando nessuno dei due se l’aspettava. Nel primo pomeriggio arrivarono al campo della banda partigiana di Pietro. I compagni accolsero il ragazzo con urla di entusiasmo. Era un prigioniero che ritornava libero, grazie all’aiuto di quella ragazzona. Anche lei venne festeggiata. Il clima cambiò quando si fecero vivi il comandante e il commissario politico della banda. Il primo era un giovane ufficiale dell’esercito, il secondo un operaio comunista.
Vollero sapere da Pietro in che modo era riuscito a evadere e chi fosse la ragazza che l’aveva aiutato. Lui raccontò la verità. E commise l’errore di aggiungere che Anna era una fascista, decisa a fuggire insieme a lui. I due capi gli fecero ripetere la storia dell’evasione. Pietro obbedì, senza mai contraddirsi. Del resto quanto andava dicendo era tutto vero. Ma nella guerra civile, un conflitto senza pietà per nessuno, poteva essere difficile far trionfare la verità. Pietro lo comprese quando cominciarono a rivolgergli domande gonfie di sospetto. I fascisti non ti avranno mica liberato per farti ritornare alla banda e spiarci? La ragazza non sarà una spia anche lei? Chi ci dice che non ti abbia fatto uscire dal carcere per conto dei suoi camerati?
Atroci sospetti
Pietro si difese, mentre Anna cadde in preda al terrore. Il commissario politico sembrava propenso a credere al racconto del ragazzo. Non così il comandante, sempre più diffidente. Pensava di avere di fronte un traditore e una fascista che fingeva di essere un’ingenua mossa soltanto dall’amore. Il partigiano comprese che cosa stava per accadere. Si scaraventò fuori dalla baracca dell’interrogatorio, gridò ad Anna di seguirlo e si mise a correre come un disperato. Riuscirono ad afferrare le biciclette, però non fecero molta strada. La fuga sembrò al comando un’ammissione di colpa. Vennero ripresi e rinchiusi in un capanno. Quella stessa notte Pietro e Anna furono condotti in un bosco vicino, con le mani legate dietro la schiena.
Li affiancava un ribelle sui trent’anni, incaricato di giustiziarli. Arrivati nella boscaglia, l’uomo accoppò Pietro con una rivoltellata alla nuca. Ma non uccise Anna. Non aveva cuore di ammazzarla. Si limitò a colpirla alla testa con il calcio della pistola. La ragazza perse i sensi. E non si accorse di venire caricata su un calesse sgangherato, accanto al cadavere di Pietro. Il partigiano li trasportò in un paese vicino. Qui furono scaricati sul selciato della piazza. Con un cartello che diceva: «Così muoiono le spie fasciste».