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 2012  ottobre 07 Domenica calendario

QUEL CHE RESTA (MOLTO) DA FARE

Vi è una sorprendente asimmetria fra l’economia tedesca e la nostra. In Germania quest’anno il reddito crescerà di circa l’1%; in Italia scenderà di oltre due punti. Ci aspetteremmo che in un’economia che soffre di scarsa domanda i prezzi scendano, o almeno non salgano. Invece l’inflazione è più alta in Italia che in Germania: 2,7% contro 1,8%. Questi dati si riferiscono ai prezzi al consumo depurati dall’effetto delle imposte indirette: cioè la differenza fra la nostra inflazione e quella tedesca non può essere attribuita all’aumento dell’Iva o di altre accise.
Il motivo per cui, nonostante la recessione, l’inflazione non scende, è la scarsa concorrenza. L’anno scorso (dati Mediobanca) il margine operativo netto in percentuale del valore aggiunto, una buona misura della redditività di un’azienda, è stato del 43% nel settore dell’energia, 33% nei servizi, 17% nell’industria manifatturiera.
Insomma, siamo un Paese in cui chi compete sui mercati internazionali continua ad ottenere grandi successi, ma con margini sempre più ridotti, che rendono problematico investire. Altre aziende, invece, protette dalla concorrenza, aumentano i prezzi e così riescono a estrarre ricche rendite dal resto dell’economia.
Queste rendite sono poi suddivise a seconda dei rapporti di forza fra gli imprenditori e i loro dipendenti: non è un caso che i sindacati più potenti si trovino proprio nei settori protetti (gli elettrici ad esempio). Avere un sindacato forte là dove non c’è polpa serve a poco. Il salario contrattuale medio (anno 2011, dati Istat) era di 32.600 euro nel settore elettrico e nelle concessionarie autostradali, 28.500 nelle aziende comunali di smaltimento rifiuti, e solo 22.700 nell’industria meccanica, dove vi sono alcune eccellenze della nostra economia.
Alle elezioni mancano sei mesi, ma solo quattro concretamente utilizzabili dal governo. Non sono pochi, e nelle condizioni in cui si trova il Paese sarebbe folle sprecarli. Questo governo tecnico non ha nulla a che fare con le elezioni, con la campagna elettorale e con il suo risultato. Se alcuni ministri, diversamente dal presidente del Consiglio, meditano di presentarsi alle elezioni dovrebbero lasciare subito il loro incarico per evitare che la campagna elettorale interferisca con l’azione del governo.
Nel presentare il suo programma alle Camere, Mario Monti disse: «Ciò che occorre fare per ricominciare a crescere è noto da tempo: provvedimenti rivolti a rendere meno ingessata l’economia, a facilitare la nascita di nuove imprese e poi indurne la crescita. L’obiezione che spesso si oppone a queste misure è che esse servono, certo, ma nel breve periodo fanno poco per la crescita. È un’obiezione dietro la quale spesso si maschera — riconosciamolo — chi queste misure non vuole, non tanto perché non hanno effetti sulla crescita nel breve, ma perché si teme che ledano gli interessi di qualcuno».
È proprio a questo che serve un governo tecnico: compiere scelte che sono nell’interesse del Paese senza dover tener conto di questo o quell’interesse particolare.
Come suggeriscono i dati da cui sono partito, c’è ancora moltissimo da fare. Ma bisogna agire a monte, eliminando gli ostacoli alla crescita. Affrontare il problema con provvedimenti di breve respiro, che non ne aggrediscono le cause prime, serve a poco, e francamente dà l’impressione che qualche ministro si occupi più della propria popolarità immediata che del futuro del Paese.
Ad esempio, per favorire la nascita di imprese innovative occorre ridurre il peso delle banche nella nostra economia e far sì che si sviluppino soggetti finanziari diversi che abbiano i fondi e le competenze per far crescere imprese nuove. Invece il decreto legge Crescita 2.0 approvato venerdì scorso dal governo interviene a valle con norme che rischiano di essere troppo complicate e, come ha scritto Fabiano Schivardi su www.lavoce.info, potrebbero avere effetti indesiderati. Ad esempio, le condizioni per essere definite «start up innovative» potrebbero esacerbare le peculiarità del sistema imprenditoriale italiano, basato su piccole imprese a conduzione familiare: in particolare, la norma che prevede che il 51 per cento del capitale debba essere di persone fisiche e che il fatturato sia inferiore a 5 milioni di euro. Altre possono dare origine a distorsioni di vario tipo, come gli incentivi fiscali a chi investe in start up.
L’occasione per agire sulle cause prime dell’assenza di crescita è invece offerta dal disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza che il governo deve presentare al Parlamento entro la fine di ottobre. In vista di questo adempimento l’Antitrust ha inviato la scorsa settimana al governo un elenco dettagliato di 72 (settantadue!) provvedimenti che dovrebbero essere varati per promuovere la concorrenza e garantire la tutela dei consumatori. Ad esempio: rendere detraibili le spese sostenute per l’adeguamento a normative che introducono nuovi oneri burocratici, perché la necessità per lo Stato di trovare la puntuale copertura finanziaria costituirebbe un formidabile ostacolo all’introduzione di nuovi oneri amministrativi; prevedere che le bollette siano stabilmente basate sui consumi reali e non su quelli presunti; eliminare le restrizioni ai distributori di carburanti e far sì che i consumatori possano verificare in tempo reale i prezzi praticati da altri esercenti vicini; eliminare il tetto agli sconti sui libri che limita la libertà di concorrenza dei rivenditori finali; rivedere la governance delle banche popolari quotate rendendole contendibili; consentire la multititolarità delle farmacie; eliminare il riferimento dell’adeguatezza del compenso del professionista rispetto al «decoro professionale» che consente agli Ordini di reintrodurre surrettiziamente la tariffa obbligatoria, e così via.
A questo punto della legislatura tradurre questi suggerimenti in un disegno di legge sarebbe un esercizio accademico. L’esecutivo dovrebbe invece avere il coraggio di vararli tramite un decreto legge, quindi renderli immediatamente operativi.
Insomma, nei quattro mesi che gli restano il governo dovrebbe impegnarsi nel rimuovere almeno alcuni degli ostacoli che ci impediscono di crescere, senza dare la sensazione di preoccuparsi troppo dei destini personali nel 2013 di alcuni ministri.
PS. Il 3 luglio scorso avvertii i lettori che alcuni giorni prima avevo consegnato al governo il Rapporto sui contributi pubblici alle imprese, e avevo quindi esaurito l’incarico tecnico che mi era stato affidato. Sul destino di quel provvedimento rimango fiducioso nonostante tutto…
Francesco Giavazzi