
Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Che succederà adesso che Obama ha effettivamente ricevuto il Dalai Lama alla Casa Bianca nonostante la Cina avesse fatto fuoco e fiamme per impedirglielo?
• Che succederà?
Probabilmente niente. Mentre Barack offendeva in questo modo Pechino, i cinesi lasciavano che la portaerei americana Nimitz entrasse nel porto di Hong Kong, accompagnata da quattro unità, la Chosin, la Sampson, la Pinckney e la Rentz. Più di cinquemila marinai che si sono sparpagliati per l’immensa metropoli a fare shopping. L’arrivo di una portaerei Usa in un porto cinese, che segue quello della George Washington dello scorso novembre, non è banale: tre anni fa Pechino proibì alla Kitty Hawk di attraccare per protesta contro la vendita di armi americane a Taiwan.
• Non c’è anche adesso una questione di vendita di armi?
Sì, la diplomazia cinese ha gridato contro un’ulteriore, recente vendita di armamenti a Taiwan per 6,4 miliardi di dollari. Pechino rivendica la sovranità sull’isola dal 1949. Washington ha sempre avuto questa posizione: c’è una sola Cina ed è quella che ha per capitale Pechino. Però ha anche stipulato un trattato con Taiwan nel quale s’è impegnata a difendere l’isola nel caso di un attacco cinese. bene ricordarselo, perché il pretesto per lo scoppio di una guerra è bell’e pronto. A Taiwan dicono che la Cina tiene mille missili puntati contro di loro.
• Il Dalai Lama è andato a parlare di questo?
Non credo, ma comunque non si sa. Dopo l’incontro, durato poco meno di un’ora, il capo dei buddisti ha detto di aver auspicato un mondo in pace e dove le donne abbiano più peso. La politica? «Niente politica». Con i giornalisti ha preso anche la parola Tenzin Dorjee, direttore del Gruppo Studenti per il Tibet libero: ««Come leader del mondo libero il presidente Obama è nella posizione migliore per dare il suo aiuto a mediare una soluzione negoziata che dia al popolo tibetano la libertà che sognano da così tanto tempo. Ci auguriamo che l’incontro di oggi sia il segnale di un atteggiamento più duro da parte dell’amministrazione Obama sui diritti umani e sul Tibet nei confronti della Cina». Una dichiarazione che né Obama né il Dalai Lama potrebbero sottoscrivere. Il Dalai Lama ormai da molti anni non chiede indipendenza (’libertà”) ma autonomia. Gli americani ribadiscono di continuo, e hanno ribadito anche ieri, che l’integrità territoriale cinese non è in discussione. Quindi il Tibet è territorio cinese. Obama ha cercato di buttare acqua sul fuoco ricevendo l’illustre ospite non nello Studio Ovale, riservato ai capi di stato, ma nella sala delle Mappe. Il messaggio spedito a Pechino con questa mossa è: il Dalai Lama non è un capo di Stato, ma un leader spirituale. Il messaggio sarebbe stato ancora più chiaro se l’incontro fosse avvenuto negli appartamenti privati del Presidente, quelli, per intenderci, dove nel 1996 il Dalai fu ricevuto da Clinton. In ogni caso: la sensazione di un incontro informale a cui non si deve dare importanza politica è stata accentuata dalla mancata stretta di mano davanti alle telecamere e da un comunicato di Barack in cui si esprime «forte sostegno alla protezione dell’identità religiosa, culturale e linguistica del Tibet e alla protezione dei diritti umani per i tibetani». Quindi nessuna rivendicazione di indipendenza, ma solo l’appello a non far sparire dalla faccia della Terra l’etnia tibetana: Pechino ha trasferito a forza sei milioni di cinesi in Tibet per annacquare l’identità del Paese e far morire quella lingua. I vecchi monumenti buddisti sono stati sviliti a pure mète turistiche. la loro solita tattica, l’hanno adoperata anche nello Xinjiang (Turkestan Orientale) dove sono quasi riusciti a far sparire quella razza.
• Commenti cinesi all’incontro?
Per ora niente. Il portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs, ha detto che il presidente ha incoraggiato il Dalai Lama a mantenere il dialogo diretto con la Cina «per risolvere le differenze». ufficiale che vi sarà un incontro anche con Hillary Clinton.
• Quindi è probabile che vada tutto liscio.
E cosa vuole, che scoppi la guerra? Si faranno i dispetti in qualche altro modo. I motivi di attrito non mancano. L’ultimo, dopo la baruffa su Google e sui dazi che gli americani hanno imposto a certi prodotti cinesi (pneumatici, ali di pollo ecc.), riguarda le sanzioni all’Iran. Pechino non ne vuole e apparentemente tiene per Ahmadinejad. La sua speranza è di sostituirsi agli occidentali – tra cui noi – nelle partnership petrolifere con Teheran. Il problema principale di quel Paese resta sempre quello di procurarsi materie prime. [Giorgio Dell’Arti, Gazzetta dello Sport 19/2/2010]
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