JONATHAN SAFRAN FOER, la Repubblica 19/2/2010; JENNER MELETTI la Repubblica 19/2/2010, 19 febbraio 2010
2 articoli - CHIEDETEVI PERCH MANGIAMO GLI ANIMALI - COME la maggior parte delle persone, ogni tanto avevo riflettuto un po’ su che cosa è effettivamente la carne, ma finché non sono diventato padre e non mi sono trovato a dover prendere delle decisioni in merito all’alimentazione di qualcun altro, non avevo provato alcuna necessità pressante di andare in fondo alla questione
2 articoli - CHIEDETEVI PERCH MANGIAMO GLI ANIMALI - COME la maggior parte delle persone, ogni tanto avevo riflettuto un po’ su che cosa è effettivamente la carne, ma finché non sono diventato padre e non mi sono trovato a dover prendere delle decisioni in merito all’alimentazione di qualcun altro, non avevo provato alcuna necessità pressante di andare in fondo alla questione. Sono uno scrittore e non mi era mai venuto in mente di poter scrivere qualcosa che non fosse fiction e, francamente, dubito che lo rifarò. In ogni caso, la questione dell’allevamento intensivo del bestiame è in questo periodo un argomento che nessuno dovrebbe ignorare. Essendo uno scrittore, il mio modo di prestarvi attenzioneè scriverne. Se le nostre modalità di allevamento del bestiame a scopi alimentari non sono il problema numero uno al mondo, sono sicuramente la causa numero uno del riscaldamento globale: dai rapporti delle Nazioni Unite risulta infatti che le attività legate all’allevamento del bestiame generano più emissioni di gas serra di tutti i mezzi di trasporto presi insieme. Si tratta di sicuro della prima causa di sofferenza per gli animali, un fattore decisivo nella creazione di malattie zoonotiche come l’influenza aviaria e suina, e l’elenco potrebbe continuare. In assoluto, questo è il problema più di qualsiasi altro circondato da un assordante silenzio. Perfino le persone più riflessive e impegnate in politica e in altre cause cercano di "non sfiorare questo argomento". E a buon motivo: parlarne può essere estremamente imbarazzante. Il cibo non è soltanto ciò che ci mettiamo in bocca per sfamarci, ma è cultura, è identità. La logica riveste sicuramente un ruolo di primo piano nelle nostre decisioni riguardanti il cibo, ma di rado è essa a indurci a determinate scelte. Dobbiamo trovare un modo migliore per parlare del fatto che mangiamo gli animali, e deve essere un modo che non ignori né accetti scrollando le spalle determinati fattori, come le abitudini, le "voglie", la tradizione famigliare e personale, ma le includa tutte nel discorso. Quanto più si permetterà a questi elementi di essere parte integrante del discorso, tanto più saremo capaci di seguire i nostri migliori istinti. Benché ci siano molti modi rispettabili di riflettere sulla carne, non vi è neppure una persona su questa Terra il cui migliore istinto quale possa spingerla verso l’allevamento intensivo. Il mio libro Eating Animals ( Se niente importa. Perché mangiamo animali? in uscita per Guanda il 25 febbraio, n.d.r.) si occupa dell’allevamento intensivo da varie prospettive diverse: il benessere degli animali, l’ambiente, il prezzo pagato dalle comunità rurali, i costi economici. Per quale motivo non vi è un numero maggiore di persone consapevoli - e arrabbiate - dell’incidenza di malattie evitabili legate al consumo di determinati cibi? Forse non sembra così ovvio che qualcosa non quadra per il semplice fatto che tutto ciò che accade così di frequente - come la contaminazione di carne, specialmente pollame, da parte di agenti patogeni - tende di fatto a sfumare in secondo piano. In ogni caso, se uno sa che cosa cercare, il problema patogeno assume una rilevanza terrificante. Per esempio, la prossima volta che un vostro amico si prende una di quelle "influenze" improvvise - quelle che in genere si tende a descrivere erroneamente come "influenze intestinali" - ponetevi qualche domanda. La malattia del vostro amico è una di quelle che "durano 24 ore" e scompaiono velocemente dopo un po’ di vomito e diarrea? La diagnosi non è semplice, ma se la risposta a questa domanda è sì, il vostro amico con ogni probabilità non ha avuto nessuna influenza. Molto verosimilmente è uno dei 76 milioni di casi di malattie dovute agli alimenti che il Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie ritiene scoppino in America ogni anno. Il vostro amico, insomma, non ha "preso un virus", ma "ha mangiato un virus". E, molto probabilmente, quel virus è stato creato dall’allevamento intensivo. Oltre al numero puro e semplice delle malattie riconducibili all’allevamento intensivo, sappiamo che questo tipo di allevamenti contribuisce al proliferare di patogeni resistenti agli antimicrobici, semplicemente perché in essi se ne fa grandissimo uso. Come misura di sanità pubblica studiata per limitare il numero di questi farmaci assunti dall’uomo, dobbiamo andare a farci visitare da un medico prima di ottenere una prescrizione per antibiotici e altri antimicrobici. Accettiamo questa seccatura per l’importanza che acquisisce sotto il profilo medico. I microbi finiscono con l’adattarsi agli antimicrobici e quindi vogliamo che siano le persone che veramente ne hanno bisogno e sono malate a trarre beneficio dal numero di volte che li si può usare prima che i microbi imparino a sopravvivere. In un tipico allevamento intensivo, gli animali ricevono farmacia ogni pasto. Negli allevamenti intensivi di pollame è pressoché obbligatorio, perché gli animali sono stati allevati in condizioni tali che le loro malattie sono inevitabili e le loro condizioni di vita le favoriscono al massimo. Il settore ha individuato il problema sin dalla sua comparsa, ma invece di accettare la possibilità di allevare animali meno produttivi, controbilancia l’immunità degli animali ormai compromessa per sempre con i farmaci. Di conseguenza, gli animali cresciuti negli allevamenti intensivi ricevono antibiotici per motivi non terapeutici. In pratica, li assumono prima ancora di ammalarsi. Negli Stati Uniti, gli esseri umani ogni anno consumano circa 1.360 tonnellate di antibiotici, ma gli animali da allevamento ne assumono la stratosferica cifra di 8.074 tonnellate. Questa, per lo meno, è la cifra dichiarata dal settore. L’Union of Concerned Scientists ritiene che il settore riporti dati inferiori alla realtà almeno del 40 per cento. Secondo questo sindacato di coscienziosi scienziati, quindi, calcolando soltanto le motivazioni non terapeutiche, maiali, pollame e altri animali da allevamento ogni anno consumano 11.158 tonnellate di antibiotici. Questo dato risale al 2001: in altre parole, per ogni dose di antibiotici assunta da un essere umano malato, almeno otto dosi sono somministrate a un animale "sano". Le implicazioni per la creazione di agenti patogeni resistenti ai farmaci sono alquanto evidenti. Uno studio dopo l’altro conferma che la resistenza antimicrobica subentra rapidamente, subito dopo l’introduzione di nuovi farmaci negli allevamenti intensivi. Per esempio, nel 1995, quando la Food and Drug Administration approvò l’utilizzo dei fluoroquinoloni - come il "Cipro" - nel pollame, malgrado le proteste del Centro per il Controllo delle malattie, la percentuale di batteri resistenti a questa potentissima categoria di antibiotici passò da quasi zero al 18 per cento già nel 2002. Un più ampio studio pubblicato sul New England Journal of Medicine ha reso noto un aumento di otto volte nella resistenza antimicrobica tra il 1992 e il 1997 e ha ricondotto questo aumento all’uso di antimicrobici nel pollame degli allevamenti intensivi. Già alla fine degli anni Sessanta, gli scienziati avevano messo in guardia dall’utilizzo non terapeutico di antibiotici nel mangime degli animali d’allevamento. Oggi istituzioni quanto mai disparate - quali l’Associazione dei medici americani,i Centri per il controllo delle malattie, l’Istituto di medicina, la divisione dell’Accademia nazionale delle scienze e l’Organizzazione Mondiale della Sanità - hanno collegato l’uso di antibiotici non terapeutici negli allevamenti intensivi con una aumentata resistenza antimicrobica ed esortano a una loro messa al bando. Il settore dell’allevamento intensivo è riuscito con successo a contrastare tale richiesta di messa al bando negli Stati Uniti. Non stupisce che negli altri Paesi divieti parziali siano soluzioni soltanto in minima parte. Vi è una ragione lapalissiana che spiega per quale motivo non è entrato in vigore il necessario divieto totale di utilizzo di antibiotici non terapeutici: il settore dell’allevamento intensivo, alleato con l’industria farmaceutica, ha più potere dei professionisti della salute pubblica. Qual è l’origine dell’immenso potere del settore? Glielo abbiamo conferito noi. Noi abbiamo scelto, inconsapevolmente, di finanziare questa industria su scala enorme mangiando prodotti animali di allevamenti intensivi. E così facciamo quotidianamente. Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta su CNN. com Traduzione di Anna Bissanti © 2009 by © RIPRODUZIONE RISERVATA BENVENUTI NEL PAESE PIU VEGETARIANO D’EUROPA - Colpa di un frigorifero troppo illuminato. «Ho visto le bistecche rosse, il prosciutto, il pollo... Prima erano solo "prodotti" comprati al supermercato. Quel giorno ho capito che il frigo era pieno di animali, uccisi e fatti a pezzi per diventare il mio cibo quotidiano. Sono passati venticinque anni. Da allora sono vegetariano». Quasi un colpo di fulmine, per Franco Castorina, coordinatore nazionale della Società vegetariana di Genova. Luciana Baroni, medico di Mestre e fondatrice della Società scientifica di nutrizione vegetariana si è invece allontanata da fiorentine di manzo e grigliate di pesce il giorno in cui ha compiuto quarant’anni. «Ci pensavo anche prima, alle sofferenze degli animali. Ma non riuscivo a decidermi. Poi ho pensato di farmi un regalo di compleanno: nutrirmi senza provocare sofferenze. E ho scoperto che così si vive anche meglio». Si fa prestoa dire «vegetariani». In questa galassia ci sono infatti i «latto-ovo-vegetariani» che escludono carne, pesce, molluschi e crostacei ma si cibano di latte, uova e qualunque tipo di vegetale. Ci sono i «lattovegetariani» che evitano anche le uova e derivati. Infine ci sono i vegani che assieme a carne e pesce rinunciano anche a latte e uova. Sei milioni - secondo un’indagine Ac Nielsen rielaborata dall’Eurispes - che in questo 2010 dovrebbero diventare sette milioni (i primi in Europa, secondo le stime dell’Unione vegetariana europea). Fra loro, il 10 per cento sono vegani. «Nella nostra società di nutrizione - dice Luciana Baroni - siamo in 400, quasi tutti professionisti. Cerchiamo di spiegare cosa sia davvero il vegetarismo e come una dieta a base di cibi vegetali rappresenti uno dei più efficaci e piacevoli mezzi per restare sani. Non ci sentiamo missionari, non vogliamo convertire quelli che noi chiamiamo gli onnivori. Siamo però a disposizione di chi cerca un’alimentazione più salubre». Da qualche anno la dottoressa è anche vegana. «All’inizio pensavo che la sofferenza fosse solo negli allevamenti, con gli animali ingrassati a forza, i trasporti, la macellazione... Poi ho smesso di bere latte e mangiare formaggi perché alla mucca viene portato via il vitello per portare il latte al caseificio. Anche nelle uova ci sono dolore e sofferenza. Il polli da uova sono diversi da quelli da carne e i pulcini maschi che ovviamente non possono fare uova vengono buttati in un macina carne e diventano cibo per altri animali». Le associazioni di vegetariani sono diverse (tre le principali, a Milano, Mestre e Genova) ma il messaggio è comune: «Il vegetariano non rinuncia ma sceglie. Il vegetariano è felice». «Oggi - racconta Luciana Baroni - mi sono preparata pasta con i broccoli e porri poi pane con tahin, una salsa di semi di sesamo. Se diventi vegetariano, non perdi gli amici. Quelli che vengono a cena da me alla fine mi chiedono le ricette. Se vado a casa d’altri li avverto della mia scelta e un risotto o una pasta riescono a prepararmeli». Felice anche il genovese Francesco Castorina. «Oggi mi sono cucinato pasta integrale con minestrone e hamburger di lenticchie. Il cibo è importante, nel nostro messaggio. Non a caso, le nostre conferenze sono brevi -massimo mezz’ora - e sono sempre seguite da cene, cuore dei corsi di cucina pratica e teorica. Tante le domande che ci vengono poste. Una dieta vegetariana è pericolosa? Si può vivere senza carne? La nostra dieta - rispondiamo - è pericolosa se fatta male, come del resto la dieta degli onnivori. Si sopravvive? Gran parte degli indiani da secoli non si cibano di carne. Il ferro e il calcio? Basta scegliere le verdure e i legumi giusti». Ravioli di tofu, polpette di piselli, biscotti d’orzo... «Certo, ci vuole più tempo che cuocere una bistecca. Ma basta guardare meno tv e il tempo si trova. Essere vegetariano vuol dire fare una scelta di vita ma non ci sentiamo superiori agli altri. Una signora genovese (ha 85 anni ed è vegetariana da 70) dice però che se si può essere vegetariani senza essere buoni (Hitler era vegetariano, ndr) non ci può essere bontà senza vegetarismo. In passato tanti ci guardavano in modo strano, ora qualcosa sta cambiando. Qui a Genova, ad esempio, ci hanno chiamato a fare conferenze al festival della Scienza. Vuol dire che ci prendono sul serio». Non si pagano quote, per entrare nella Società genovese. Basta iscriversi al sito. «Con la scelta vegetariana si diventa anche amici. Alla fine di marzo organizzeremo a Claviere la prima settimana bianca vegetariana, con cucina vegana. Anch’io ho fatto questa scelta, quando ho scoperto che latte e formaggi mi facevano gonfiare le mani». Tutti uniti per la propria salute e per la salute del mondo. Vegetarianie vegani, nel loro materiale informativo, raccontano che «per produrre un solo chilo di carne servono dai 7 ai 16 chili di soia o altri legumi, 15.500 litri di acqua pulita e 323 metri quadri di pascolo». Il chilo di carne viene mangiato da chi se lo può permettere mentre i poveri del mondo debbono rinunciare ai legumi. Per dimostrare che la dieta senza carne e pesce non debilita si citano i nomi di atleti che hanno fatto stupire il mondo: da Carl Lewis a Martina Navratilova, da Paavo Nurmi a Edwin Moses. «Mentre per una dieta vegetariana non ci sono problemi - dice il professor Vincenzino Siani, docente di Ecologia della nutrizione all’università di Tor Vergata - qualche dubbio esiste per la dieta vegana. Le proteine si trovano anche in cereali e legumi ma la vitamina B12 nei vegetali non è presente - se non in piccola parte in certe alghe - e chi anche rinuncia a latte e uova ne resta privo. Per questo i vegani debbono assumere questa vitamina in pillole e questo è il loro tallone d’Achille. Io sono vegetariano ma non vegano. Non ci si può giustificare dicendo che l’uomo per secoli ha mangiato solo vegetali ed è riuscito a sopravvivere. Chi mangiava erbe, foglie e verdure in passato mangiava anche gli insetti che c’erano in mezzo e pezzetti di terra. La nostra igiene ha cambiato il modo di assumere i vegetali, non più "arricchiti" come in passato». Il dieci per cento di vegani sembra però in aumento. «Chi da onnivoro diventa vegetariano, nei primi tempi, rinunciando a carne e pesce, si butta sul formaggio e a volte eccede. Crede che a fargli male sia il formaggio e invece è solo l’eccesso di tale cibo. E allora rinuncia. Io continuo ad assumere latte e derivati, sia pure in piccola quantità. Mi sembrerebbe assurdo ricorrere a pillole». A Verona, nel giugno scorso, è stato aperto il primo ambulatorio pediatrico vegetariano d’Italia. «I vegetariani - racconta il professor Leonardo Pinelli, diabetologo e nutrizionista pediatrico - vogliono che anche i loro figli seguano la loro scelta e non sanno a chi rivolgersi. I pediatri non sono preparatie si arrabbiano. "Cosa, non vuol dare la carne a suo figlio?"». L’ambulatorio è pubblico e gratuito, organizzato dalla Asl e dall’università. «Noi sappiamo che la dieta vegetariana fa bene. Sappiamo che il 40% delle malattie, dal diabete al colesterolo all’ipertensione, possono essere affrontate con una dieta vegetale. Ma non abbiamo dati italiani, statistiche e ricerche arrivano quasi tutte dagli Stati Uniti. Noi vogliamo studiare i "nostri" genitori e i "nostri" bambini. Vengono da noi papà e mamme cui non bastano le informazioni prese in Internet o nel negozio macrobiotico. Vengono a chiedere, ad esempio, cosa fare per lo slattamento ai sei mesi, quando gli altri piccoli passano agli omogeneizzati di carne. Noi indichiamo frutta, brodo vegetale, crema di riso o mais e tapioca. Dopo una o due settimane consigliamo le pappine di lenticchie rosse decorticate. Certo, può stupire una scelta vegetariana fatta dai genitori per i neonati, ma saranno comunque i piccoli a decidere quando saranno cresciuti. C’è da rilevare però che il gusto si forma nei secondi sei mesi di vita e ai bimbi resterà per sempre la passione per sapori delicati come quelli dei legumi e delle verdure.I genitori vengono da noi anche per un altro motivo. Alla nonna che protesta perché un bimbo non può crescere senza carne, la mamma potrà farsi forte del parere di un docente universitario». JENNER MELETTI la Repubblica 19/2/2010