Marco Del Corona, Corriere della Sera 19/02/2010, 19 febbraio 2010
UNA LUNGA STORIA DI RANCORI PER «QUEL MONACO MOLESTATORE»’
Sessant’anni di ingratitudine. Questo è il Tibet per la Repubblica Popolare cinese. E tanta ingratitudine diventa un’ossessione che abita la politica di Pechino e la manda a sbattere contro la simpatia che il Dalai Lama raccoglie nel mondo. I soldati di Mao Zedong cominciarono a «liberare» l’altopiano nel 1950. La resistenza fu quella di striminzite truppe di una teocrazia medievale sopravvissuta ai secoli. Ed è qui, forse, il primo bandolo della nevrosi tibetana di Pechino. Un popolo arretrato e superstizioso cui venne portato il progresso socialista rimane ancora oggi devoto al suo monarca feudale, espressione di un clero tirannico: così si pensa a Zhongnanhai, la cittadella del potere. Non solo lì, però, perché le reazioni durante i moti di Lhasa del marzo 2008 svelarono in Cina un’antipatia diffusa per il «monaco mestatore».
Pechino ama mostrare i successi in Tibet, un Pil che in mezzo secolo s’è moltiplicato per 200, un analfabetismo passato dal 95% al 5%. Soprattutto la fine della servitù della gleba. Quando dopo l’invasione Mao concesse al Tibet una parziale autonomia, la schiavitù venne mantenuta. Solo dopo la rivolta del 1959, e la fuga in India del Dalai Lama, Pechino la smantellò. Da allora il controllo sulla regione, nonostante la formale autonomia del ”65, è ferreo, con segretari del Partito cinesi han (lo fu l’attuale presidente Hu Jintao) e alcuni ruoli subalterni ai tibetani. L’anno scorso, per contrastare il cinquantesimo anniversario della rivolta anticinese, Pechino ha istituito per il 28 marzo la Giornata della Liberazione degli Schiavi, inserita in un massiccio sforzo di promozione dello sviluppo alla cinese.
Per il governo la questione tibetana è una faccenda di politica interna. La reattività di fronte alle «ingerenze» si nutre anche del ricordo delle (inutili) manovre della Cia durante la Guerra Fredda. Ma in un seminario dell’Università Tsinghua, l’anno scorso, gli studiosi cinesi si lamentavano di come la tibetologia sia egemonizzata da specialisti che la esplorano dal versante indiano, utilizzando un repertorio culturale che sa di sanscrito mentre – spiegavano al Corriere – non riescono ad avere credito gli accademici che lavorano sui legami tra la cultura tibetana e l’universo cinese.
Gli argomenti dei filo-tibetani (l’Altopiano non èmai stato cinese) e dei filo-cinesi (lo è sempre stato) paiono fatti per non toccarsi, a maggior ragione ora che la questione è politica. Nulla può Pechino contro lo charme comunicativo del Dalai Lama. Amico di attori, da Richard Gere in giù, invitato ovunque, persino a Taiwan. In una Cina senza separazione fra Stato e Chiesa, dove sono formalmente riconosciute solo cinque religioni rese «patriottiche» dal controllo del Partito, non fa presa l’argomentazione’ ribadita dalla Casa Bianca in questi giorni – che il Dalai Lama sia «un leader religioso internazionalmente rispettato». Per Pechino è un fomentatore politicissimo. Neppure la rinuncia del Dalai Lama all’indipendenza disinnesca la paranoia di Pechino. «separatismo» la richiesta di «sostanziale autonomia» e di accorpare al Tibet le aree tibetane di Qinghai, Gansu, Sichuan e Yunnan. Insieme, un quarto dell’intera Repubblica Popolare. Ossessiona Pechino il fatto che il Dalai Lama sia un Premio Nobel. Per la Pace, poi, mentre la Cina va a caccia di riconoscimenti che invece ottengono scienziati cinesi naturalizzati o, peggio, esuli come Gao Xingjian (Nobel per la Letteratura nel 2000).
Un suo anti-Dalai la Cina prova a coltivarlo. Il giovane 11° Panchen Lama scelto da Pechino e appena eletto vice-presidente dell’Associazione buddhista viene addestrato a sorridenti pubbliche relazioni, ma non si libera dell’ombra dell’«altro» 11° Panchen Lama. Che fu riconosciuto dagli emissari del Dalai Lama e fatto sparire a 6 anni nel 1995. Il «prigioniero di coscienza più giovane del mondo», così fu definito, vive controllato o prigioniero, oppure è morto, come vuole qualche studioso in odore di disinformacija. Ma il Dalai Lama si fa vecchio, l’altopiano si riempie di han e di soldi (altri 60 miliardi di dollari fino al 2015) e nelle città cinesi il Tibet è innocuo folk, uno sfondo che funziona nelle pubblicità, un esotismo sempre più normale. Nonostante il – o paradossalmente grazie al – Dalai Lama.
Marco Del Corona