Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
A questo punto quelli dell’Isis, avendo conquistato Ramadi la settimana scorsa, si trovano a cento chilometri da Baghdad, in Iraq e avendo preso completamente Palmira ieri hanno da percorrere ancora soltanto duecento chilometri per entrare a Damasco, in Siria.
• Su Palmira c’è anche una preoccupazione più generale, trattandosi di un sito archeologicamente importantissimo, patrimonio dell’umanità secondo l’Unesco.
Sì, anche se molte statue sono state portate in posti sicuri. Però ci sono dichiarazioni preoccupatissime proprio di quelli dell’Unesco. «Tutto ciò che succede oggi a Palmira è molto pericoloso. Sappiamo già che ci sono state delle distruzioni, ci sono delle colonne che sono cadute. C’è stato un bombardamento. La distruzione del sito archeologico sarebbe non solo un crimine di guerra ma un’enorme perdita per l’umanità». Così la direttrice generale Irina Popova. In teoria non ci sarebbe nessuna ragione per distruggere l’antica Palmira, i suoi archi, le sue colonne immortalate sempre in una luce declinante che le rende quanto mai fascinose: sulle colonne non vi sono né scritte né disegni blasfemi. Ma quelli dell’Isis danno un’enorme importanza all’attenzione del mondo e procedono alle distruzioni, che giustificano sempre con motivazioni religiose, per occupare gli spazi più importanti dei telegiornali occidentali e per mostrare ai loro correligionari quanto sono forti e potenti, come sono credibili le loro minacce. Per la stessa ragione procedono volentieri a pubbliche decapitazioni di massa, come hanno fatto ieri con i soldati siriani catturati. Il califfo al Baghdadi, ferito gravemente, è riapparso giovedì della settimana scorsa, e forse questo ha dato una motivazione ulteriore ai combattenti islamici. «Non ci sono scuse per un vero musulmano — ha detto lo pseudocaliffo — per non venire a stabilirsi nello Stato islamico e per non affiancare le sue battaglie». Non dimentichiamo mai che la guerra in corso in Medio Oriente è prima di tutto uno scontro interno all’Islam: sunniti contro sciiti, e ciascuna delle due fedi vuol far vedere al proprio mondo quanto è potente.
• Per il momento si direbbe che l’Isis stia vincendo.
Anche se gli americani, con i loro droni, hanno duramente colpito i capi del Califfato, ferendo lo pseudocaliffo e ammazzando Abu Sayaf e forse anche al Afri (il vice di al Baghdadi), l’Isis appare in questo momento in vantaggio. E, a quanto sembra, resterà in vantaggio almeno fino a che Obama non deciderà un qualche intervento sul terreno. Le truppe irachene, benché guidate dai consulenti americani, non sono all’altezza, hanno perso malamente Ramadi. Sembra che gli Stati Uniti stiano rivedendo la loro strategia prudente, hanno promesso la fornitura di mille sistemi missilistici anticarro At4 «che arriveranno abbastanza presto» e, attraverso varie dichiarazioni di suoi funzionari, si sono impegnati ad aiutare il governo di Baghdad a riconquistare Ramadi «appena possibile». Una difficoltà seria è che la popolazione, sunnita, aiuta in tutti i modi i miliziani dell’Isis, sunniti come loro, e questo è fondamentale.
• Assad in Siria?
Ha grossi problemi. È riapparso in televisione un paio di settimane fa, pronunciando questa frase significativa: «A volte le battaglie si vincono, a volte si perdono. Si avanza, ci si ritira». La guerra gli presenta un bilancio di 230 mila morti. La perdita di Palmira è giudicata cruciale: l’antica città si trova allo svincolo della via che porta da un lato a Damasco e dall’altro in Iraq. E tuttavia nessuno prevede una vittoria definitiva di nessuno dei contendenti in campo, persino nel caso che Bashar Assad fosse catturato o ucciso o scappasse. Aron Lund, studioso del Carnegie Endowment for International Peace: «La Siria è uno Stato in decomposizione, nessuno sa più definire che cosa rappresenti la vittoria finale. Il governo può perdere territori e disintegrarsi anche rapidamente, i suoi elementi costitutivi non sono destinati a scomparire. Anche se il presidente morisse o si ritirasse dalla capitale, il suo esercito continuerebbe a esistere sotto forma di milizie: il caos e il conflitto andrebbero avanti».
• Com’è possibile? Se l’Isis entrasse a Damasco...?
Gli iraniani (sciiti) non possono permettere che la Siria cada in mano al nemico sunnita. Gli hezbollah, libanesi e sciiti, continuerebbero una guerriglia incessante, riconquistando posizioni perse e soprattutto proteggendo il corridoio che da Damasco conduce al mare, un’area in cui si sono ammassati gli alawiti, cioè la minoranza da cui proviene lo stesso Assad (12 per cento della popolazione). Anzi, se Assad riuscisse a riconquistare Aleppo la sua caduta non sarebbe più così probabile in tempi brevi.
• Una volta si parlava di una rivolta contro il regime sanguinario del presidente... Di questo, dopo l’Isis, non restano più tracce.
Le strutture militari sono in conflitto con la cerchia del presidente perché rifiutano l’idea che a comandare in casa loro siano gli uomini di Teheran (come avviene ormai da un pezzo). A Latakia c’è stata anche una manifestazione dei genitori che non vogliono più consegnare i loro figli alla causa del regime.
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