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 2015  maggio 22 Venerdì calendario

Intervista all’amministratore delegato dell’Enel, Francesco Starace: «Ecco la proposta sulla banda larga. Aperta a Cassa Depositi e Prestiti, Telecom e agli altri operatori. Un’occasione per l’Italia ma ora un periodo di riflessione»

È ormai un anno che Francesco Starace ha in mano le redini dell’Enel. La prima volta di un ingegnere di formazione come amministratore delegato del colosso elettrico. Curioso: un ingegnere nucleare (59enne) passato attraverso l’esperienza del braccio «verde» del gruppo, Enel Green Power.
«Sono contento di quest’anno – spiega – abbiamo sistemato il tema un po’ ansiogeno del debito, tanto che le agenzie di rating hanno rialzato l’outlook; la nostra strategia è stata capita dal mercato; abbiamo messo mano al sistema Endesa e America Latina, valorizzando Endesa che era un po’ nel limbo: ora il 70% vale come il 92% che avevamo, e abbiamo più di 3 miliardi in tasca; abbiamo messo le basi per sbrogliare il pasticcio delle partecipazioni sudamericane. Insomma, abbiamo fatto un sacco di cose senza perdere un colpo, con risultati operativi e reddituali positivi».
Certo, poi è arrivata la banda larga. Come l’hanno presa gli investitori internazionali?
«La nostra proposta l’abbiamo spiegata anche a loro, anzi è la prima domanda che ci hanno fatto quando li abbiamo incontrati».
Posare la fibra per conto degli operatori nell’«ultimo miglio» in occasione della sostituzione dei contatori (con un costo inferiore di un quinto ai 2,5-3 miliardi stimati); stipulare con loro un contratto di manutenzione pluriennale; lasciare agli operatori la fibra e la rete. È questa l’idea?
«Sì, in linea generale è così. Gli operatori delle telecomunicazioni usano già i nostri cavidotti e così abbiamo detto: estendiamo questo schema agli ultimi cento metri, ma lungi da noi l’idea di un ritorno al passato dell’Enel multiutility».
Eppure siete stati tirati dentro come possibili soci di una società della rete…
«Sinceramente non ne ho mai parlato con nessuno. Ma a che servirebbe l’Enel nella rete? Non dico mai un no a priori, ma di cosa stiamo parlando?»
E la vostra proposta? Con chi ne avete discusso?
«Con tutti, con il governo, con la Cassa Depositi e Prestiti, con le società di telecomunicazioni. Ma anche se finora non ci sono state reazioni negative, anzi al contrario, credo che ci voglia un po’ di tempo perché tutti possano metabolizzarla e capire come utilizzarla al meglio. C’è bisogno di un time out di almeno un paio di settimane».
Si è anche detto che siate solo interessati ai 6 miliardi di investimenti pubblici..
«Ma no, non è così perché nel caso saremmo pagati dalle società di telecomunicazioni e non dalla mano pubblica. Guardi, abbiamo solo fatto presente un’opportunità, senza ricevere sollecitazioni da nessuno. Un’occasione che permetterebbe di portare il Paese da uno stato di arretratezza tecnologica a uno di supremazia in tutta Europa, grazie alla copertura che saremmo in grado di garantire».
I contatori di seconda generazione li installerete comunque dal 2016. Che cosa dovrebbero fare?
«Si, è così, perché dopo 15 anni di operatività vanno sostituiti e i primi li abbiamo messi nel 2001. Ma non saranno un oggetto ludico, non faranno il caffè né serviranno per la musica. Consentiranno rilevazioni accurate e in più saranno in grado di dialogare con altri devices elettronici. Serviranno per l’internet delle cose, per la domotica del futuro. E poi visto che sarà un grande investimento (oltre 2 miliardi di euro la vecchia sostituzione, ndr) daranno lavoro a migliaia di persone».
Anche se il dibattito sulla banda larga ha monopolizzato la scena, l’Enel va avanti sulle sue strategie. Da ultimo con il piano cessioni e la vendita di Slovenske Elektrarne, oggetto di trattativa con Bratislava. Quante offerte avete ricevuto? Venderete in due fasi facendo prima salire la quota governativa al 51%?
«In tutto abbiamo ricevuto quattro offerte da soggetti industriali, compresa quella dei cechi di Eph. Su Slovenske abbiamo accelerato per una questione di convenienza e la vendita in due fasi è un’alternativa alla cessione in toto che potrebbe essere vantaggiosa dal punto di vista della messa in valore del nostro 66%. Slovenske sta costruendo due gruppi nucleari e vendere prima o dopo fa una certa differenza. Penso che l’intenzione del governo slovacco di salire nella quota sia razionale, vediamo come si tradurr à in fatti».
Volete cedere anche le quote nell’upstream del gas? E a che punto siete con l’obiettivo di 5 miliardi di dismissioni in cinque anni?
«Nell’upstream abbiamo tre giacimenti in Algeria e qualche attività in Italia che abbiamo messo in vendita. Quanto alle dismissioni abbiamo identificato già 4 miliardi di attività e abbiamo altri quattro anni per il miliardo che manca. C’è tutto il tempo».
Tempi lunghi anche per il riassetto del Sudamerica: 12-18 mesi dal sì delle assemblee. Non saranno troppo lontani gli effetti che preventivate?
«Vede questa chart? (un intricato organigramma societario, ndr) Ce ne vogliono cinque come questa per mappare tutto il sistema delle società sudamericane. I tempi sono quelli necessari, considerando che sono coinvolte almeno cinque società quotate. Non abbiamo un Paese preferito rispetto a un altro, ma oggi c’è troppa confusione per investire, e questa mescolanza non va bene».
In questo quadro la zavorra dei conti Enel, almeno fino al primo trimestre, è il mercato italiano...
«Non è così, il trimestre in Italia è stato meglio di quanto si pensasse. Nella rete, nella generazione e nel retail l’Italia ha fatto la sua parte».
Il ritorno alla crescita del Pil italiano registrato dall’Istat ha riscontri dal vostro punto di vista?
«Abbiamo visto i consumi elettrici non scendere più e anzi risalire. Certo, sono numeri con lo zero virgola, comunque incoraggianti rispetto a quelli negativi. Non è finita, ma si vede una notevole ripresa di attività».
Eppure sul mercato della generazione elettrica si continua a parlare di «overcapacity» e di ristrutturazioni che finora non si vedono. Come mai?
«Noi per la verità abbiamo fatto la nostra parte, con il programma di riconversione o chiusura non traumatica di 23 impianti. Ma non è un tema solo italiano, è europeo. In Europa manca un mercato di lungo termine che dia segnali di prezzo fondamentali per le decisioni di investimento degli operatori. Il resto, compreso il capacity market che si vuole introdurre, è solo un palliativo di breve respiro».
Obiettivi futuri, banda larga esclusa?
«Sistemare il Sudamerica. E far partire un programma di ammodernamento tecnologico delle nostre attività e impianti in giro per il mondo, a partire dall’Italia».