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 2015  maggio 22 Venerdì calendario

Oltre a essere uno splendido sito archeologico, Palmira Uno snodo strategico al centro del deserto che può decidere il destino della guerra al Califfato

A Palmira, l’antica Tadmor, secondo la Bibbia costruita da Salomone, i combattenti del “califfato” possono scatenare la loro collera iconoclasta. Si annuncia un massacro di statue decapitate (oltre alle teste tagliate degli avversari umani), di colonne pagane sbriciolate, di immagini insozzate o cancellate con raffiche di kalashnikov. Nella città appena conquistata ci sono tante tracce preislamiche, non mancano le rovine millenarie del mondo politeista greco-romano, che quei jihadisti detestano e distruggono con picconi e dinamite quando ci si imbattono. Negli ultimi giorni la marcia è stata inarrestabile. A tratti trionfale. E sinistra. Dal 17 maggio, in neppure una settimana, lo “Stato islamico” ha infatti espugnato Palmira in Siria e Ramadi in Iraq, dimostrando di controllare, almeno per il momento, territori più ampi del previsto nei due paesi in cui vorrebbe imporre il proprio potere. E cosi realizzare un vero califfato. In circa metà della Siria si muove da padrone e nella provincia sunnita di Anbar, in Iraq, occupa Ramadi, il capoluogo. Questo nonostante gli interventi aerei degli Stati Uniti e della coalizione cui partecipano anche paesi arabi litigiosi e indecisi, e l’assistenza di tremila americani, consulenti militari o agenti dell’intelligence, non sempre ascoltati.
Palmira è anzitutto un simbolo. Lo è per le sue rovine, ma anche politicamente perché a due passi c’è la prigione di Tadmur, dove il regime degli Assad, padre e figlio, vi ha fatto morire di torture e di fame migliaia di dissidenti. La ferocia di Damasco si è sfogata per decenni in quella galera. Nei paraggi ci sono campi di gas che i jihadisti sapranno sfruttare economicamente come già fanno con i pozzi di petrolio (e con le antichità che sanno vendere agli antiquari internazionali). Palmira è altresì un centro stradale di importanza strategica nel deserto siriano. Damasco è a poco più di 200 chilometri. Ramadi, in Iraq, è all’altra estremità del grande campo di battaglia in cui è impegnato lo “Stato islamico”. Il fatto che in quattro giorni le sue truppe siano state in grado di lanciare due offensive rivela una notevole capacità tattica. A Tikrit e a Kobane, la prima in Iraq la seconda in Siria, si erano dimostrate meno efficienti. In quei due assedi sono state sconfitte. Umiliate malgrado l’impegno. E l’innegabile coraggio. Ma la vera grande conquista, quella di Mosul, seconda metropoli irachena, avvenuta un anno fa, non ha mai ceduto. E il momento dell’offensiva, da tempo in programma per gli americani al fine di recuperare la città e di imprimere una svolta alla guerra, si allontana sempre di più. Se a Palmira l’esercito siriano ha dato prova di stanchezza, dopo quattro anni di conflitto, a Ramadi l’esercito iracheno ha dimostrato di non essere ancora in grado di contenere l’impeto dei combattenti dello “Stato islamico”. Le perplessità degli strateghi americani, se ne hanno, non sono infondate.
I loro tremila addestratori, mandati nella valle del Tigri e dell’Eufrate, non possono compiere miracoli. Né i loro aerei e droni vincere una guerra senza fanteria o quasi. I jihadisti seminano spesso il terrore facendo un uso frequente di autobombe. Tra di loro non mancano i kamikaze. Gran parte dei 22mila volontari stranieri, provenienti da un centinaio di paesi e individuati dagli osservatori internazionali, preferisce unirsi allo “Stato islamico”. Suscita più entusiasmo, spesso al punto da dedicarci la vita come kamikaze. Soltanto adesso gli americani avrebbero deciso di rifornire l’esercito iracheno di missili anticarro, capaci di fermare quelle vetture micidiali. Ne dovrebbero mandare un migliaio ai primi di giugno. A Ramadi, dove lo sbandamento dell’esercito è stato provocato in larga parte dalle autobombe, i missili sarebbero stati utili. Arriveranno in ritardo. Sul piano strategico la perdita di Ramadi è più grave di quella di Palmira.
Pone problemi di difficile soluzione. L’esercito regolare iracheno, in gran parte sciita, non ha retto all’offensiva delle autobombe. Si è ritirato in disordine, perché disorganizzato ma anche perché impacciato dal non sempre amichevole atteggiamento della popolazione sunnita, maggioritaria in quella provincia. In quanto alle scarse milizie sunnite organizzatesi nell’Anbar, benché costrette in principio a battersi contro lo “Stato islamico” anch’esso sunnita, non si sono mai impegnate sul serio. L’intreccio delle varie milizie, complicato dalla diversa appartenenza religiosa, non facilita i rapporti. Quelle sciite irachene sono sempre apparse più decise ed efficaci, ma al tempo stesso indesiderate dalla popolazione e dagli amministratori sunniti perché influenzate o controllate, o addirittura comandate dagli iraniani.
Per non aggravare la situazione, e non attizzare la tenzone tra sunniti e sciiti, gli americani avevano annunciato in un primo tempo che non avrebbero compiuto incursioni aeree in appoggio alle truppe di terra se tra quest’ultime ci fossero state milizie sciite. Poi, visto il disastro dell’esercito iracheno, hanno corretto il tiro affermando che avrebbero tollerato la presenza di milizie sciite purché non comandate da ufficiali iraniani. Ma la questione è ben lontana dall’essere risolta. E cosi la provincia di Anbar resta un mosaico di gruppi armati incapaci o non abbastanza decisi nel contrastare l’avanzata dallo “Stato islamico”. Ramadi è a 110 chilometri da Bagdad.
Gli americani sono impigliati nel conflitto tra sciiti e sunniti, in sostanza tra Iran e Arabia Saudita. Il primo è il campione degli sciiti e la seconda la protettrice dei sunniti. Il quasi accordo sul nucleare con l’Iran (si vedrà alla scadenza di fine giugno se sopravviverà ai negoziati in corso) ha inquinato la lunga, storica intesa tra Stati Uniti e Arabia Saudita. Quest’ultima partecipa con qualche aereo alla coalizione impegnata in Siria e in Iraq contro lo “Stato islamico” sunnita, ma sembra molto più preoccupata per quello che diventerà l’Iran quando non sarà più paralizzato dalle sanzioni. Cioé quando ridiventerà una potenza militare, sia pur non atomica, capace di mobilitare gli sciiti, compresi quelli che vivono nella penisola arabica. Non a caso l’Arabia Saudita è impegnata nel vicino Yemen nel tentativo di contenere la ribellione sciita, che pensa animata dall’Iran.
Anche a Palmira la situazione oltre che tragica è complicata. Gli americani sono di fronte a un dilemma. Se bombardano quelli del “califfato” che hanno appena conquistato la città sbaragliando l’esercito di Bashar al Assad difendono quest’ultimo, del quale Barak Obama ha chiesto la destituzione. In sostanza si schierano con un nemico. Ma è un nemico amico dell’Iran con il quale gli Stati Uniti stanno trattando. Certo gli aerei americani non possono accanirsi sulle preziose rovine di Palmira per colpire i jihadisti. Non si contribuisce alla distruzione di una città antica consacrata dall’Unesco. Ma il principio, sacrosanto, crea una grande e intricata alleanza: quella tra coloro che vogliono salvare Palmira e che quindi vogliono combattere i jihadisti dello “Stato islamico” impegnati a distruggerla. Obama diventa alleato di Assad e l’Iran alleato del regno saudita. Palmira diventa un altare su cui si celebra la pace? Per ora è un luogo di micidiale confusione.