
Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Una caduta del 2,51% non è la fine del mondo e sappiamo che Piazza Affari ha visto molto di peggio. Però lo spread da qualche giorno sale, ieri a un certo punto ha superato quota 160, anche se poi è ridisceso a 155. In generale l’atmosfera non è buona.
• Sarà necessario ricordare che cos’è lo spread.
“Spread” (pronuncia “spred”) è un indicatore che si adopera per misurare soprattutto la fiducia dei mercati verso i titoli del debito pubblico. In pratica, si tratta della differenza tra l’interesse che viene pagato sui titoli tedeschi a dieci anni e l’interesse che viene pagato sui titoli italiani della stessa durata. Più siamo vicini allo zero e meglio stiamo. Quando Berlusconi fu costretto a dimettersi nel novembre del 2011, uno dei suoi accusatori principali era proprio lo spread, che stava molto oltre i 500 punti, equivalenti a un tasso del 7% sulle emissioni di quel momento. 160 o 155 non sono preoccupanti in sé, se non per il fatto che la tendenza di questo spread è a salire. In pochi giorni, è schizzato su di una trentina di punti.
• Quindi c’è una preoccupazione internazionale nei nostri confronti.
Ieri sono andate male tutte le borse. Hanno cominciato a perdere il Giappone e il resto dell’Asia: la politica espansiva della Banca di Tokyo - la cosiddetta Abenomics, che vorrebbero anche Renzi e Hollande - non sta funzionando. Poi è andata male l’Europa: Parigi -1,24%, Francoforte -1,47%, Londra -1,04% più il record negativo italiano, -2,51%. Mentre scriviamo è in flessione anche Wall Street. Su questo calo generalizzato influiscono fattori internazionali, a cui si aggiungono, per lo specifico italiano, problemi nostri.
• Vediamo i fattori internazionali.
Tutti gli analisti ieri dicevano che l’avanzata di Trump, sopra di un punto alla Clinton in qualche sondaggio, ha creato forte preoccupazione nei grandi investitori internazionali, compresi i grandi speculatori. Nella realtà delle cose, se si va cioè un attimo al di là degli slogan e delle parolacce, mentre le intenzioni della Clinton, che il mondo conosce da un pezzo, sono abbastanza prevedibili, quello che vorrà fare il candidato Trump una volta messo in trono è un mistero assoluto. I mercati odiano l’incertezza e intanto si mettono al sicuro vendendo, scambiando cioè titoli per soldi. L’incertezza, oltre tutto, riguarda a questo punto anche la Clinton: chi può esser certo che, una volta eletta, non sia messa in stato d’accusa per la faccenda delle mail? La situazione in campo democratico è così disperata che il presidente Obama ha attaccato l’Fbi, con le parole «Non si opera sulla base di soffiate...».
• La Clinton però è sempre in vantaggio.
Piccolo vantaggio. In termini di stati - quelli che contanno - la candidata democratica sarebbe avanti per 273 a 265. La partita decisiva si gioca in sei stati: Florida, North Carolina, Ohio, Iowa, Nevada, Arizona.
• Che altro sul piano mondiale?
È un elemento di forte preoccupazione la nuova caduta del prezzo del petrolio. I paesi petrolieri si sono incontrati a Vienna per decidere i tagli alla produzione e non si sono messi d’accordo. Il greggio, che s’era arrampicato fino a una quotazione di 54 dollari il barile, è precipitato, e ieri ha toccato quota 45. A parte il Venezuela, paese fallito, sono numeri che mettono in grande difficoltà Putin.
• Veniamo ai fattori interni.
Ma intanto l’Italia è uno dei grandi fattori di preoccupazione internazionale, quindi dobbiamo metterla accanto al fattore Trump e al fattore petrolio. C’è il problema delle nostre banche, acutissimo nella zona del Monte dei Paschi di Siena che deve trovare 5 miliardi che al momento appaiono piuttosto problematici. Poi, ce la caviamo ancora perché i tassi d’interesse stanno a zero. Ma la Yellen, o nella seduta che è in corso (improbabile) o al prossimo appuntamento di dicembre, tirerà un po’ su il tasso di sconto americano e questo darà il via a una ripresa generale dei tassi, con ritorno di un minimo d’inflazione. Qualche fiammella inflattiva s’è vista già. È un bene, ma non troppo per i nostri conti. Oggi paghiamo 65 miliardi l’anno di interessi sul debito, che succederà se i tassi ricominciassero ad andar su? Aggiungiamo l’incognita del referendum, che forse a questo punto sarebbe meglio rimandare davvero (può succedere, se verrà accolto il ricorso di Valerio Onida). L’ansia mondiale nei nostri confronti si coglie in un indice «euro break-up» elaborato ogni mese dall’agenzia austro-svizzera Sentix. In pratica, si calcolano le probabilità che ciascun paese esca entro un anno dall’euro. Nell’ultima elaborazione l’Italia è prima col 9,9% di probabilità, a rischio più della Grecia la cui uscita è quotata all’8,5%.
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