Libero, 3 novembre 2016
Cesare Zavattini. Dal nostro inventato speciale nella Hollywood immaginaria
C’è un libretto di 585 pagine che è un viaggio in un Luna Park. Il Luna Park è Cesare Zavattini. Il libro lo ha scritto Gualtiero De Santi, si chiama Ritratto di Zavattini scrittore (Imprimatur, pp 585, euro 25). Ti permette di passare delle ore in compagnia di un uomo che giocava con i pezzetti di Lego del mondo, rimontandoli in un modo diverso. Cesare Zavattini.
Zavattini non è stato solo l’altra metà di De Sica, l’uomo che ha scritto Ladri di biciclette e altri capolavori, da Sciuscià a Umberto D., Fiumi di parole. In un solo anno pubblica tre libri, dichiara «Io postumo non mi interesso». Fame di comunicazione, di affermazione, di vita e di idee. Fin da quando, a ventiquattro anni, scrive il primo pezzo per la Gazzetta di Parma. Era già insegnante al prestigioso Convitto Nazionale di Parma; l’articolo che scrive è il resoconto di una gita scolastica. Scritto già con un piglio, uno stile da autore di razza.
La spiaggia marchigiana dove lui e gli allievi finiscono è rumorosa, e loro sono «in cerca di un metro quadrato di sponda senza jazz band, un angolo da nevrastenici di marca». Ritmo delle parole, ironia, e un flash che fotografa una spiaggia chiassosa e commercializzata, proprio come adesso. Le colline, nell’entroterra, sono «macchie ocra, pagliai cupolari come disegnati da pittori cubisti». Ed è facile capire come quel ragazzo di ventiquattro anni fosse già uno scrittore, capace di usare le parole come un pennello, o come un fioretto. Tra i suoi allievi di allora, di pochi anni più giovani di lui, ci sono Giovannino Guareschi e Attilio Bertolucci, futuro poeta, padre del regista. Per dire gli incroci del destino.
Fu proprio Bertolucci racconta De Santi, critico letterario e cinematografico a trascinare il suo professore al cinema, a vedere un film di King Vidor. La proiezione cambiò la vita di Zavattini. Fino a quel momento, per lui era il teatro l’arte nobile: ne scriveva qualche recensione per la Gazzetta di Parma. In una di esse, stroncava una commedia di Luigi Pirandello, indorando la pillola parlando bene degli attori. Zavattini ha scritto articoli di giornale, soggetti di fumetti, sceneggiature per il cinema, monologhi per il teatro.
Di tutto. Un mondo che non finisce mai. Per scoprirlo, bisogna lasciarsi andare. Farsi prendere per mano da Gualtiero De Santi, che in questo libro pubblicato da Imprimatur, distribuito da Rcs segue la teoria del «pedinamento» di Zavattini. E pedina proprio Zavattini, anno dopo anno, libro dopo libro. A Parma sembra quasi di vederli, questi giovani intellettuali seduti al caffè a discutere, ridere, alzare la voce. Poi ci sono gli anni di Milano. È il 1930 quando Zavattini vi approda; ci sono più possibilità, più movimento, più occasioni. Ed è l’incontro con un grande editore quello che gli cambia la vita. Valentino Bompiani sta iniziando la sua avventura indipendente, e decide di pubblicare questo ragazzo di provincia. È il 1931 quando esce Parliamo tanto di me: libretto dal titolo strano, ’autore sconosciuto, di appena 120 pagine e costo irrisorio per l’epoca: 5 lire. È un successo. Il primo, quello che innesca il “caso Zavattini”. Da allora, «Zà» pubblicherà con Bompiani, sodalizio di tutta la vita.
Sempre a Milano, negli anni ’30 Zavattini incontra Giuseppe Marotta; il quale gli propone di scrivere degli articoli per Cinema illustrazione, una delle riviste di Rizzoli. Zavattini lì s’’inventa dei nomi fittizi: Jules Parme, Kaiser Zha. E s’inventa delle Cronache da Hollywood assolutamente immaginarie, ma più vere del vero. Racconti intrisi di umorismo, dove appaiono Greta Garbo, Buster Keaton, Charlie Chaplin... Buster Keaton «se ne sta appartato in silenzio e riflette nei suoi grandi occhi mansueti tutto quel mondo come sulla superficie di un tetro lago». Un moscerino entra in camera di Greta Garbo e lei: «Cameriere, che cos’è questa corrente d’aria?». Cose così. Il libro è un viaggio pressoché infinito, zeppo di divertenti intuizioni e paradossi.
E alla fine, Zavattini resta ancora, in qualche modo, inafferrabile. Gli scrisse Giovanni Papini: «La battezzano ’umorista’. Io trovo in lei un poeta tragico che si giova del grottesco apparente per meglio rivelare la dolorosa, malinconica, spaventosa realtà quotidiana. C’è qualcosa in lei di un Kafka e di un Joyce, resi più italiani e più lirici». Mica poco, per quel ragazzo che portava i suoi allievi in gita nelle Marche. Nel 1940, lascia Milano per Roma. E scrive un primo soggetto, Totò il buono, pensato insieme a Totò, per un film che lo vedesse interprete principale, e che non vide mai la luce. Diventò, modificato e senza Totò, Miracolo a Milano nel 1951. Il resto è storia, e va scoperto nel libro di De Santi.
Completano il volume fotografie rivelatrici: Zavattini con un cappello a tesa rigida, e i suoi allievi del “Maria Luigia” di Parma; Zà, in un tavolino di caffè con Pasolini; alla Mostra del cinema di Venezia del 1968, arrestato per aver occupato con altri registi la sala Volpi; a Viareggio con Ungaretti e Montale; e ancora, con Strehler, De Sica, Valentino Bompiani. Elogi, stroncature, polemiche; insomma, Zà.