
Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Arresti in Catalogna contro la secessione

Tredici membri del governo catalano sono stati arrestati ieri per ordine del governo spagnolo. Il nome più importante è quello di Josep Maria Jové, segretario generale del dipartimento dell’Economia e numero due di Oriol Junqueras. Junqueras è il vicepresidente della Catalogna e guida il partito della Sinistra Repubblicana di Catalogna, indipendentista. Junqueras ieri ha twittato: «Stanno attaccando le istituzioni di questo paese e quindi i suoi cittadini. Non lo permetteremo». Il premier Rajoy ha risposto: «Provvedimenti inevitabili». La colpa degli imprigionati: essersi adoperati per lo svolgimento del referendum del prossimo 1° ottobre, nel quale verrà chiesto ai catalani se vogliono oppure no separarsi dalla Spagna. La Corte costituzionale spagnola aveva dichiarato il referendum illegittimo. Il primo ministro Mariano Rajoy s’era detto da subito pronto a fare di tutto per impedire una consultazione che spaccherebbe in due il Paese. L’unità della Spagna - come l’unità dell’Italia - è sancita dalla Costituzione. Tra le misure più pesanti prese dal governo di Madrid per impedire il referendum c’è il blocco dei trasferimenti di denaro in Catalogna, con l’argomento che non è lecito adoperare i fondi del Paese per un’operazione contro il Paese. Così come in Italia, anche in Spagna il sistema finanziario si basa su un forte centralismo: i soldi delle tasse vanno tutti a Madrid che poi li redistribuisce. Adesso la Catalogna resterà senza soldi e dipendenti pubblici e fornitori saranno pagati, fino a nuovo ordine, direttamente dal governo centrale. Le misure anti-referendum hanno sollevato una quantità di proteste. Ieri a Barcellona si sono svolti cortei per l’indipendenza molto affollati. La squadra della città - il famoso Barcellona di Messi e in questo caso soprattutto dell’indipendentista Piqué - è totalmente schierata con i secessionisti. Un comunicato della società dice che il Barcellona calcio è totalmente schierato dalla parte «della democrazia, della libertà d’espressione e del diritto all’autodeterminazione» e condanna «ogni atto che può limitare l’esercizio di questi diritti».
• Come mai la Catalogna si vuole separare?
Ci sono intanto ragioni storiche e sentimentali. Durante il franchismo la Catalogna e i catalani vennero perseguitati, si finiva in galera solo per il fatto di parlare catalano invece che castigliano. Franco, dopo aver fatto fucilare, nel 1940, Lluís Companys, il presidente della Generalitat (così si chiama il governo autonomo di Barcellona), dichiarò la Catalogna «regione nemica». La fine del franchismo coincise con una ripresa tumultuosa, appassionata, irrefrenabile dell’identità. A scuola si parla e si insegna in catalano, allo spagnolo si dedicano un paio d’ore alla settimana, come all’inglese. Cioè, lo spagnolo è considerato una lingua straniera. L’autonomia catalana è andata via via crescendo perché i deboli governi centrali spagnoli, a caccia dei voti necessari a far approvare le leggi, hanno via via ottenuto l’appoggio dei deputati catalani con sempre maggiori concessioni. Un referendum s’è già svolto nel 2010, i secessionisti hanno vinto, ma votò appena un terzo dei 7 milioni e mezzo di abitanti e la vittoria degli indipendentisti - senza alcun valore legale - fu facilmente depotenziata. Ma nel 2015 i partiti indipendentisti hanno ottenuto la maggioranza assoluta nel parlamento di Barcellona e così la legge sul referendum separatista da tenersi il 1° ottobre, poi sospesa dalla Corte costituzionale, è stata approvata per 78 voti a zero.
• Questa separazione è davvero conveniente per la Catalogna? È davvero conveniente per la Spagna?
Dibattito apertissimo e con autorevoli opinioni diametralmente opposte. La Catalogna ha un pil di duecento miliardi e contribuisce per un quinto alle entrate di Madrid. In caso di secessione questi soldi resterebbero in loco e lo stato spagnolo dovrebbe salutare anche 16 miliardi di tasse. La Catalogna inoltre produce il 26% dell’attività industriale e si avvicina al 30% delle esportazioni. In compenso è solo quarta nel reddito pro capite, dietro ai Paesi Baschi, La Navarra e Madrid. Con 27.430 euro per abitante, sta nella media italiana (in realtà piuttosto sotto – ndr)
. La crisi ha alzato il tasso di disoccupazione (intorno al 20%) e l’amministrazione regionale, la Generalitat, è la più indebitata delle autonomie spagnole. Questo perché trasferisce alla Spagna molto più di quanto non riceva (il deficit è di 16 miliardi), non riesce a finanziarsi sui mercati, e lo Stato non le paga tutto quello che dovrebbe. Le difficoltà per la Catalogna potrebbero venire da un buco di bilancio di 9 miliardi, che non sarebbe più compito di Madrid ripianare o non aggravare, da un debito di 57,6 miliardi e dalla necessità, se uscisse, di farsi carico di un quinto del debito pubblico spagnolo di mille miliardi. Non proprio una passeggiata.
• Potrebbe continuare a far parte dell’Unione europea?
I secessionisti dicono di sì, ma da Bruxelles rispondono di no. Lo stato della Catalogna, per essere ammesso, dovrebbe sottoporsi alla trafila tipica di tutti gli altri stati. Madrid porrebbe di sicuro il suo veto.
• Come mai c’è tutto questo fremere delle piccole patrie per rendersi indipendenti?
È l’effetto dell’integrazione europea e, più in generale, della globalizzazione che ha reso gli stati più deboli e le identità localistiche più forti. La Lombardia e il Veneto da noi (che terranno un referendum consultivo il 22 ottobre), ma anche il Mezzogiorno o la Sardegna. Il Tibet, la Scozia, le Fiandre, la Baviera, la Savoia. Un’onda mondiale che non sarà facile, e forse neanche conveniente o giusto, fermare.
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