21 settembre 2017
In morte di Jake LaMotta
Claudio Colombo per il Corriere della Sera
La boxe antica di Jake LaMotta non aveva la cifra stilistica dei grandi artisti del ring, ma dentro di sé portava i segni di una vita agra e complicata, giocata tutta sulla lotta per la sopravvivenza, sulla rabbia infinita di un ragazzo del ghetto che voleva diventare qualcuno e qualcosa a dispetto del mondo. Con i pugni, molti sparati a casaccio, ma sempre con grande cuore e coraggio, Giacobbe detto Jake, di chiare origini italiane, aveva costruito l’intera sua esistenza.
Tirava cazzotti da quattordicenne per guadagnarsi qualche monetina da improvvisati spettatori di strada, a 19 anni era già professionista, diventò un peso medio da grandi incontri e poi, a carriera finita, un totem venerato di quella boxe in bianco e nero che aveva dominato la scena americana degli anni 40 e 50, Frankie Carbo e la mafia a spadroneggiare, incontri truccati, soldi sporchi che ballavano, carriere spezzate per un no o un sì pronunciati nel momento sbagliato.
La morte di Jake, martedì 19 settembre, in un ricovero per anziani in Florida, il referto dice polmonite, è un sipario che cala sul tempo che passa, sulla storia di un uomo, su una leggenda destinata a sopravvivere. Aveva 95 anni, due mesi e 9 giorni, un’età talmente lontana da produrre discussioni persino sulla data di nascita: 1922, certifica il suo sito web ufficiale; 1921, scrive qualche annuario del pugno. Solo un dettaglio, naturalmente. Di sicuro c’è che era nato a New York, in una casa tra la Prima Avenue e la Decima strada, e basta questo per respirare certe atmosfere da frontiera urbana dove il sopruso è la regola e la legge un’eccezione.
LaMotta conquistò il titolo mondiale il 16 giugno 1949 a Detroit, strappandolo a Marcel Cerdan, francese di sangue algerino, così bello e sfrontato da far impazzire d’amore la cantante Edith Piaf: la rivincita, fissata per dicembre, non fu mai disputata, perché Cerdan morì in ottobre in un incidente aereo alle Azzorre, diretto a New York per incontrarsi con la sua amante. Anche Jake non era da meno, in fatto di donne: ne sposò sette, l’ultima pochi anni fa, si chiama Denise e c’era lei, negli ultimi istanti di vita, a tenergli la mano. Denise è stato l’approdo finale di un tormentato rapporto con l’altro sesso. Prima, c’erano state le Theresa, le Dimitria e le altre donne quasi senza volto, ma nessuna, forse, fu tanto centrale nella sua vita come la Vikki così ben tratteggiata da Scorsese nel film «Toro scatenato», donna fatale e sottomessa, spesso malmenata senza pudore, madre dei due figli maschi che Jake scortò al camposanto, entrambi morti tragicamente, ancora giovani, uno di cancro e l’altro in un incidente aereo.
Jake è stato un uomo che ha sempre fatto a botte, sul ring e nella vita. Da campione, dopo Cerdan, difese la corona contro un italiano, il biondo Tiberio Mitri, volto da attore e una moglie, Fulvia Franco, dalle curve generose che avevano stregato il mondo del cinema. Mitri il bello rimase in piedi per quindici riprese, ma non ci fu storia, LaMotta non gli diede scampo: era il 12 luglio 1950. Poi era toccato al francese Laurent Dauthuille, battuto a 13 secondi dalla fine con i cartellini dei giudici che lo davano in vantaggio. E infine era arrivato Sugar Ray Robinson, 14 febbraio 1951, l’uomo del destino, nel match passato alla storia come il «massacro di San Valentino»: era il sesto combattimento tra i due, LaMotta ne vinse solo uno, perse l’ultimo, il più importante.
Jake chiuse la carriera nel 1954, e per lui fu come proiettarsi in un vortice incandescente: nel 1957, proprietario di un nightclub in Florida, si fece sei mesi di carcere per istigazione alla prostituzione. Nel 1960, chiamato a testimoniare davanti a una commissione d’indagine del Senato, ammise di aver disputato un incontro truccato dalla mafia del ring.
Nel 1970, riemerso a vita normale, Jake scrisse la sua autobiografia, che ispirò Scorsese per «Raging Bull», con Robert De Niro nella parte del toro scatenato. Talmente bravo e vero da vincere l’Oscar nel 1981. Quel De Niro che ieri, riconoscente, ha salutato l’ultimo guerriero del ring: «Riposa in pace, campione».
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Enrico Franceschini per la Repubblica
LONDRA «Sugar Ray, non mi hai messo giù». L’arbitro aveva appena sospeso l’incontro alla tredicesima ripresa, assegnando la vittoria allo sfidante, Sugar Ray Robinson, una leggenda della boxe, per ko tecnico. Lo sconfitto era l’italoamericano Jake La Motta, che perdendo il match perse anche il titolo di campione del mondo dei pesi medi e non lo riprese mai più. Aveva il volto ridotto a una maschera di sangue. Prese così tanti pugni che quella sfida, il 14 febbraio 1951, viene ricordata come “il massacro di San Valentino”. Ma non è entrata nel mito per il successo di Robinson. Ci è entrata per la sconfitta di La Motta. Per la sua ostinata resistenza a un avversario chiaramente migliore. Per il suo rifiuto di andare al tappeto. Mentre il vincitore festeggiava nel suo angolo, sentì che qualcuno gli toccava la spalla. Si girò e si trovò di nuovo davanti l’uomo che aveva appena battuto. Sanguinante. Ma in piedi.
«Sugar Ray, non mi hai messo giù» è diventata un’espressione proverbiale: il simbolo di tutti coloro, nello sport come nella vita, che perdono ma non si arrendono. A renderla una frase celebre, naturalmente, ha contribuito “Toro scatenato”, il film del 1980 con Robert De Niro, che vinse l’Oscar per la sua interpretazione, diretto da Martin Scorsese, di cui qualcuno lo giudica il capolavoro.
Non è stata un capolavoro la vita di Jake La Motta, morto ieri negli Stati Uniti, a 96 anni, in una casa di riposo. Figlio di un muratore di Messina emigrato senza un soldo negli Usa, cresciuto nel Bronx, il quartiere più tosto di New York, aveva la lotta per la sopravvivenza nel dna. Sul ring era coraggioso e aggressivo, conquistò il titolo contro il grande campione francese Marcel Cerdan, lo difese tra gli altri contro l’italiano Tiberio Mitri, ma in tutto perse 19 dei suoi 106 combattimenti, incluso uno su pressioni della mafia, per questioni di scommesse, come confessò in seguito (contribuendo a fare luce sul lato oscuro della boxe). Litigò ferocemente con il proprio fratello e manager, accusandolo di andare a letto con sua moglie, anche se poi da vecchi hanno fatto la pace – e di mogli ne ha avute sette. Lasciato lo sport finì a fare il cabarettista in squallidi night-club di Atlantic City, diventando grasso come un pallone; ma poi è dimagrito, ha scritto libri, tra cui l’autobiografia da cui è tratto il film di Scorsese.
«Era un uomo dolce, forte, ironico, speciale», ha dichiarato Denise, la settima moglie, annunciandone la scomparsa. «Finalmente sono in Sicilia», disse lui a Lucio Luca di “Repubblica” nel settembre del 2005, visitando per la prima volta la sua terra, «come ho fatto a non venirci prima?». Il film sulla sua turbolenta esistenza, affermò in quella occasione, gli era piaciuto molto: «Me lo rivedo ogni tanto, penso che Scorsese sia un genio. De Niro? Ero io, in quel film c’era il La Motta originale. Al cento per cento». E De Niro gli rende omaggio: «Riposa in pace, campione».
La notte della prima, in un cinema di Times Square, a Manhattan, mi capitò di guardarlo insieme a Jake. All’uscita lo avvicinai emozionato e gli dissi: lei è un grand’uomo, mister La Motta. Rimase impassibile: non sembrava tanto convinto della propria grandezza. Ma contro Robinson non andò al tappeto. Sugar Ray non lo mise giù. E la sua epica sconfitta rimane come una lezione per tutti, dentro e fuori dal ring.