
Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti

Gli ungheresi sono stati chiamati a un referendum che aveva per tema gli immigrati, e hanno detto “no” all’arrivo di nuovi stranieri in una percentuale del 95%. Però sono andati a votare in troppo pochi, e questo “no” non ha dunque valore legale, ma solo politico.
• Spieghiamo bene.
L’Ungheria è oggi un piccolo paese di appena 11 milioni di abitanti. Lo guida dal 2010 un leader di destra, popolarissimo, che si chiama Viktor Mihály Orbán, è giovane (54 anni) e ha rimesso a posto i conti del Paese. Orbán, sul tema dei migranti, s’è mosso con forza: un anno fa ha costruito al confine con la Serbia una barriera di filo spinato alta quasi quattro metri e lunga 180 chilometri. Tuttora difende la propria frontiera meridionale con diecimila soldati. Inoltre una legge votata a luglio permette alla polizia di rispedire a casa loro i migranti irregolari arrestati entro otto chilometri dal confine. La scorsa settimana Orbán ha proposto di creare campi profughi in Africa con questa argomentazione: «Tutti coloro che entrano illegalmente dovrebbero essere radunati e portati fuori dalla Ue».
• Che bisogno c’era di indire un referendum, se la linea praticata è questa?
L’anno scorso, a settembre, la Commissione europea ha approvato il sistema delle quote: i 160 mila migranti arrivati in Italia e in Grecia avrebbero dovuto essere redistribuiti tra gli altri paesi della Ue, secondo criteri in cui si teneva conto di molti parametri (Pil, quantità di migranti già ospitati, eccetera). In base a questi calcoli l’Ungheria avrebbe dovuto accogliere 1.294 persone, poca cosa in fondo per un paese con 11 milioni di cittadini. Ma Orbán prima ha fatto ricorso alla Corte europea, poi ha indetto questo referendum. Dalle molte implicazioni sottintese. Una delle quali è questa: può un parlamento nazionale bocciare un decisione presa in seno alla Comunità europea, che a rigore dovrebbe considerarsi un’entità politicamente superiore?
• Discussione tutta accademica.
Sull’esempio tedesco, nessun paese sembra intenzionato a cedere quote della propria sovranità. La Brexit è un effetto soprattutto della questione migranti, che gli inglesi non vogliono in nessun modo. E non li vogliono in nessun modo nemmeno gli ungheresi. Il quesito del referendum di ieri era: «Volete che l’Unione Europea possa prescrivere l’insediamento obbligatorio di cittadini non ungheresi anche senza il consenso del parlamento ungherese?». Cioè, come dicevo, gli ungheresi sono stati chiamati a votare su che cosa la Ue può o non può fare. E se analoghi referendum si fossero svolti in altri paesi con qualche vittoria del “sì”? Come avrebbero dovuto regolarsi i governanti europei?
• Insomma, com’è finita?
Stando agli ext di poll di ieri sera, che confermano quanto era emerso nei sondaggi della vigilia, il “No” ha raccolto il 95% del consensi, ma sono andati a votare solo il 43,42 per cento degli otto milioni aventi diritto, cioè il quorum del 50% +1, previsto anche da loro, non è stato raggiunto. Un risultato che permette di cantar vittoria a tutti quanti: ai democratici (che sabato hanno organizzato una catena umana a Budapest) e che adesso chiedono le dimissioni di Orbán, e allo stesso Orbán che può facilmente farsi forte di quell’impressionante 95% e sostenere, non senza qualche ragione, che chi non è andato a votare appartiene non ai nemici del governo e del “No” ma a quello strato sempre più vasto in occidente di uomini e donne che ne hanno abbastanza della politica e non vogliono essere disturbati con chiamate alle urne che considera inutili. Il referendum, in effetti, e il gran rumore che il governo gli ha creato intorno, non sono poi troppo utili. La ripartizione tra paesi non è mai neanche cominciata, e infatti Renzi, adesso, sbatte anche per questo i pugni sul tavolo. Orbán ha poi vita facile a costruire muri e a mobilitare l’esercito senza bisogno di nessun referendum.
• Si tratta davvero di un bravo primo ministro?
Lei ha detto che «ha rimesso a posto i conti del Paese». La risposta viene dai numeri, a meno che non siano stati falsificati: in questi sei anni di governo il Pil ungherese è cresciuto del 3%, Standard & Poor è in procinto di migliorare il rating sul loro debito, la disoccupazione è crollata dall’11,2% del 2010 al 6,4% di quest’anno. Non è un caso se, nelle elezioni del 2014, il partito di Orbán, Fidesz, ha ottenuto il 44,8% dei consensi.
(leggi)