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 2016  ottobre 03 Lunedì calendario

Una vita da Viktor Orbán

Sui campi di calcio della seconda divisione ungherese quel ragazzo col pallino del football era un autentico percussore, una forza della natura che tra dribbling, colpi di testa e tiri piazzati sognava la serie A. Altre passioni, il vino che produce e le ricette economiche fondate sul mix tra economia di mercato e Stato sociale. Ma adesso Viktor Orban coltiva in più la storia, le radici cristiane dell’Ungheria, la crociata anti-migranti. L’Economist gli ha stampato addosso il soprannome l’Archetipo. Ma di nomignoli sui media europei ne ha collezionati tanti: Viktator, l’Infrequentabile, Trump europeo, il Gollista di Budapest, il Putinista per la sua vicinanza con Putin.
Paradossale quest’ultima: le fortune politiche di Orban, classe 1963, primo ministro e più giovane premier europeo nel 1998 a 35 anni, nascono nel giugno 1989, quando 26enne studente con barba di tre giorni si lancia in una memorabile filippica davanti a 250mila connazionali che celebrano l’eroe nazionale Imre Nagy impiccato dopo la rivoluzione del 1956. Orban arringa i concittadini invocando lo strappo totale col regime comunista, riforme radicali, elezioni libere e il ritiro delle truppe sovietiche. Ha una laurea in diritto.

LA CITTÀ DEI RE

Nato a Székesfehérvar, città dove si facevano incoronare i Re d’Ungheria, figlio di contadini protestanti, è intriso di filosofia liberale e difende i diritti umani. Brillante liceale, ha studiato a Oxford grazie a una borsa di studio di Soros ed è tra i fondatori di Fidesz, Alleanza dei giovani democratici. Da calciatore sa cogliere gli umori degli spalti. L’amore per il football e per il mondo della comunicazione ne farà un naturale amico e alleato di Silvio Berlusconi. Dal ’98 al 2002, porta il suo paese fuori dalle secche del dopo-crollo del Muro. Nel 2010 torna in sella, votato da due terzi dell’elettorato, e nel pieno della crisi che ha messo in ginocchio anche l’Ungheria la sua ricetta funziona. Le Borse, la finanza, hanno frustrato cittadini e imprenditori. Lui conferma il fiorino contro l’Euro, super-tassa le multinazionali, riduce l’autonomia della Banca centrale ungherese, vieta alle aziende straniere di comprare sottocosto terre e aziende. Aderisce alla Nato. Però critica la fragilità delle democrazie, e modifica la Costituzione forte di 263 seggi su 386 in Parlamento. Riscopre la forza dell’appello al Dna etno-religioso dell’Ungheria, innalzando baluardi anche fisici (176 chilometri di muro, filo spinato al confine con la Serbia), sbarrando il passo ai migranti della rotta balcanica e alla invasione musulmana. Fino ad allora i media europei hanno visto nell’anti-comunismo l’ossessione principale di Orban. Adesso c’è la difesa della fede, della cultura, della storia europea e magiara. Viktor definisce popolare, non populista il suo partito. Raccoglie consensi crescenti, tra la sua gente ma non a Bruxelles che comincia a vederlo come un autocrate che sfida i valori comunitari, anche con nuove leggi che imporrebbero il bavaglio alla stampa, e con la riproposizione della pena di morte.
VISEGRAD
Diventa l’apostolo dell’Ungheria. Crea il Gruppo di Visegrad, quattro paesi che comprendono Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, contro i migranti che insidiano i posti di lavoro europei. «I musulmani dice Orban hanno un approccio alla vita completamente diverso dal nostro. Se noi cristiani li lasceremo competere con noi sul continente, saremo superati numericamente. È matematico». Resuscita inoltre il sogno della Grande Ungheria, respingendo i confini acquisiti che inglobano importanti comunità ungheresi in Romania e in Serbia. Nel suo Orbanistan o Orbania, nella sua democratura, per usare altri appellativi giornalistici, la filiazione liberale ha lasciato il posto alla retorica delle prime righe della nuova Costituzione: «Noi siamo fieri che il nostro Re Santo Stefano abbia edificato lo Stato ungherese su solide fondamenta e abbia reso il nostro Paese parte dell’Europa cristiana mille anni fa». L’avvocato liberista oxoniano è diventato Orban I.