la Repubblica, 3 ottobre 2016
Il Novecento di Calligarich
Qualche anno fa, quando Aragno ripubblicò il romanzo “L’ultima estate in città” che era uscito la prima volta nel ’73 da Garzanti, furono in molti a sorprendersi: come mai un romanzo così era passato inosservato o quasi e come mai l’autore, uno scrittore vero, era praticamente scomparso dalle librerie per diversi decenni? Eppure Gianfranco Calligarich era partito col piede giusto: aveva vinto il premio l’Inedito ed era stato appoggiato da Cesare Garboli e da Natalia Ginzburg. L’ultima estate in città è la storia di una deriva in una città, Roma, compiacente e distratta dove tutti sembrano aspettare qualcosa, ma senza mai crederci più di tanto. Calligarich era approdato a Roma da Milano qualche anno prima senza avere per le mani un vero mestiere. Sapeva scrivere, ma dopo aver pubblicato il primo romanzo non gli riusciva di concludere il secondo. Allora aveva fatto un po’ il giornalista a Vie nuove, poi gli era capitato di aggiustare una sceneggiatura altrui per la Rai, dimostrando una spontanea sapienza e ritrovandosi subito ingaggiato per scrivere di nuovo e questa volta in proprio. Per anni aveva poi firmato sceneggiati per la televisione e scritto per il teatro sempre lasciando il secondo romanzo nel cassetto, incompiuto. Lo sblocco c’era stato quando L’ultima estate in città era tornato in libreria. Il secondo romanzo si chiama Privati abissi ed è uscito da Fazi: un po’ seguita le storie del primo. Poi ci furono altri libri. Ma cosa c’era prima di quelle storie ? Calligarich è un ottimo narratore, anche orale. Bisogna far rievocare da lui la volta in cui andò ad Avignone, al festival, con Cesare Garboli e dormirono in macchina o di quando dirigeva con successo un piccolissimo teatro che stava al Fontanone del Gianicolo. Ogni tanto accennava, parlando con gli amici, alla storia delle navi bianche, quelle della Croce Rossa che avevano riportato in Italia gli emigrati in Eritrea quando crollò l’impero di Mussolini. Perché su una di quelle navi, bambino nato all’Asmara, c’era anche lui, c’era la sua famiglia. La malinconia dei Crusich è appunto la storia della sua avventurosa famiglia, la Roccaforte, attraverso buona parte del Novecento. Una saga, come quella dei Buddenbrook o dei Buendía.
E chissà, mi sono chiesto, se nel descrivere i denti dei fratelli Crusich, tutti perfetti e splendenti salvo quelli di Dandi che invece ce li aveva radi, l’autore si è ricordato che Thomas Mann, oltre ad insistere in modo abnorme sui cibi, non manca di informare i lettori sui denti di alcuni personaggi. Non voglio affatto istituire un raffronto tra la saga dei Buddenbrook e la saga dei Crusich che compare oltre un secolo dopo, salvo il fatto che le vicende di una famiglia attraverso più generazioni sembrano fatte apposta per essere affidate allo strumento romanzo, in questo caso docufiction, visto che tutto si appoggia al vero. E tutto comincia con Luigi Crusich, armato della sua malinconia, dei suoi denti scintillanti e dei suoi occhi grigi che lascia la famiglia d’origine a Trieste, diserta dall’esercito asburgico e spicca il volo. L’istinto, più che la sorte, lo porterà a Corfù, dove crea un’azienda agricola e mette al mondo sei figli che educa gettandoli in mare al secondo compleanno perché imparino a nuotare. Il narratore, nipote di Luigi Crusich e figlio del di lui primogenito Agostino, con gli stessi occhi grigi del nonno, ha raccolto molte informazioni su un’epoca mitica che non ha vissuto e la ricostruisce dunque a posteriori in un serrato racconto senza dialoghi in cui, pagina dopo pagina, non dà tregua al lettore, offrendogli momenti di poesia, di avventura, di dolore e di sfida al destino. Passano gli anni, arriva la Grande Guerra e i Crusich, che sono protagonisti di una vera e propria odissea, rovinati dall’inflazione, lasciano Corfù per l’Italia e in particolare per Milano, la città da cui GinoCrusich (il nipote narratore che si muove un po’ in parallelo rispetto al nonno) prenderà a sua volta il via molto tempo dopo, coltivando un suo personale sogno di libertà. Ma prima dobbiamo seguire Agostino in Eritrea, assunto dalla ditta di trasporti Gondrand.
L’Africa italiana a parte il Flaiano di
Tempo di uccidere, è un capitolo molto trascurato dalla nostra letteratura. E l’Africa dei fratelli Crusich con Agostino (il padre di GinoCrusich) che governa i camion Fiat 634, dei bestioni di cui letteralmente si innamora, e il fratello Vassili che vola su piccoli aerei, è per un po’ una sorta di Eden. Un Eden, però, non esente da massacri e catastrofi e con la cacciata finale. A Calligarich, che ha qui costruito con grande misura e stile compatto, una sorta di cattedrale, piace dare un respiro quasi biblico alle imprese dei suoi avi. Come se il mondo cominciasse (e finisse) con loro. Comunque sia il lettore resterà in Eritrea fino alla crisi dell’impero: gli inglesi poi faranno prigioniero Agostino, mentre il resto della famiglia, compreso GinoCrusich di tre anni, viene imbarcato su una nave bianca della Croce Rossa e riportato in Italia. Un lungo viaggio in treno riporterà la famiglia in una Milano appena liberata. La Grande Storia per i Crusich si riassume nel fatto che c’è una fazione innominata che ha vinto e un’altra che ha perso e chi ha perso deve trarne certe conseguenze come accade a Costantino, il fratello coi denti radi, che era stato un funzionario dell’Ente Legna e dunque riconoscibile come perdente. Ora si nasconde fuori casa e la moglie gli porta di nascosto la biancheria pulita. Vivere? Sopravvivere? Comunque i Crusich noi li vediamo sempre agire e costruire, ne conosciamo la malinconia, ma non il pensiero. Quando GinoCrusich è ormai un ragazzo lo vediamo darsi da fare a Milano per raggranellare qualche soldo. È il momento della ricostruzione: il padre Agostino, tornato dalla prigionia, ha messo insieme una squadra, mentre Gino perlustra le macerie alla ricerca di qualcosa da vendere. Credo che questa esperienza abbia segnato il nostro protagonista-narratore più di molte altre: è il primo mattone di una certa filosofia del vivere o meglio un sistema di vita che l’uomo praticava in tempi molto antichi, quello del raccoglitore. Si sta in un posto finché c’è qualcosa da prendere, poi si va altrove. Ed è quello che il giovane Crusich dagli occhi grigi farà: butta via i libri e la scuola e parte per Roma, ufficialmente per fare il fotografo, ma disposto a tutto. Lo spirito zingaresco continua ad agire e le avventure saranno molte: l’intero romanzo è una sorta di caleidoscopio pieno di storie, di luoghi e di personaggi, anche misteriosi. C’è persino un po’ di Sudamerica perché lì si trova un altro dei Crusich, visto che i Crusich sono quasi infiniti. Uno di loro, veterinario, verso la fine del libro, cura un falco ferito e poi lo libera perché possa tornare a sprigionare la sua immensa forza. È una pagina bellissima, la metafora, credo, dell’intera storia.