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 2016  ottobre 03 Lunedì calendario

VITA DI CRACCO, LA POLIZIA, LA GAVETTA E LA FAMA: “SI VIVE ANCHE SENZA TV”

I fumi di una cucina, i fumogeni di uno stadio: “Quando arrivò l’epoca del servizio militare ero già indipendente da un pezzo. Guadagnavo, mi facevo i fatti miei e l’idea di regalare un anno allo Stato marciando con gli Alpini non mi andava proprio giù: ‘A me farebbe piacere’ mi diceva mio padre. ‘Ci saranno tutti i tuoi amici’ aggiungeva mia madre. Li delusi e scesi a Roma, arruolandomi in Polizia, un corpo amministrativo e non militare che mi consentiva di non mettermi le stellette e nel quale pur essendo cuoco, avrei avuto la certezza di non essere sbattuto nuovamente in cucina. Da piccolo sognavo la divisa e la divisa ebbi. Finii a fare ordine pubblico fuori dallo stadio Olimpico, con lo scudo e il manganello, tra una perquisizione e una carica in cui non sentendomi cuor di leone provavo a tenermi fuori dal centro della scena. Avevo scelto la Polizia perché volevo vedere com’era il mondo fuori. Capii abbastanza in fretta che quello non era il mio futuro”.
Tra meno di una settimana, Carlo Cracco, compirà 51 anni. Cuoco, ristoratore, scrittore dai titoli barocchi (Dire, fare, brasare, o anche Se vuoi fare il figo usa lo scalogno), padre di 4 figli, stella televisiva. Giudice in competizione con altri giudici tra i fornelli Sky di Masterchef e giudice unico senza l’ausilio di giurie, televoti o pareri del pubblico tra le velleità da chef di altissimo livello in Hell’s Kitchen (Sky Uno Hd, 4 ottobre, ore 21.15). Sui loro destini, decide solo Cracco: “E non è difficile essere duri perché in Hell’s Kitchen non ho a che fare con i dilettanti, ma con chi è già un professionista, ha un ruolo nella ristorazione e si propone di fare un salto nell’olimpo dei cuochi. La cucina, come suggerisce il titolo, può diventare un inferno oppure un paradiso dai molti elementi che per essere governati hanno bisogno di un tocco magico, diabolico, quasi da stregone. In verità i concorrenti sanno benissimo da soli quando sbagliano. A volte gli va male, altre bene. In alcune occasioni sono indulgente con loro, in altre durissimo. Ècapitato anche a me. All’inizio, quando ero solo un aiutante, sono stato maltrattato e umiliato, ma forse passare attraverso un’iniziazione rude è l’unica maniera per crescere davvero. Ti sveglia, ti scuote, ti fa vincere la timidezza”.
Prima dei locali, delle stelle, delle forchette, delle copertine, dei premi e della fama internazionale c’era la provincia. Il padre ferroviere, la madre casalinga: “Che faceva 3 o 4 lavoretti per arrotondare”. Gli orari stretti: “A casa – cascasse il mondo – cenavamo tutti insieme alla stessa ora”.
I giochi con i coetanei di Creazzo sulle rive del fiume Retrone: “Tra un torneo di freccette e una scampagnata non ero mai da solo”. La pigrizia: “Ho recuperato in tarda età, ma in gioventù per lo sport ho avuto un’allergia profondissima”. E poi il gusto, da formare, come la manualità: “La prima volta che mi misero un vitellone da disossare davanti, la bestia pesava almeno 70 chili. Lavoravo come assistente da Mario, a Vicenza. La domenica c’erano più di 400 coperti e si doveva trottare”. Non ha avuto mai orrore di niente, dice: “Perché se è vero che il rapporto del cuoco con il cibo è un rapporto fisico, è vero soprattutto che deve essere un rapporto laico. Libero dai pensieri, dai dogmi, dai fastidi che pure al principio avevo. Il pesce ad esempio. L’ho scoperto tardissimo, a 14 anni. Aveva un odore forte e una consistenza strana. Oggi mangio di tutto e non ho pregiudizio per nessun sapore, da qualsiasi parte del mondo venga”.
Di pregiudizi: “E guerre assurde in nome del cibo” giura Cracco ce ne sono ancora tanti: “Per prenderci in giro – ricorda – ci dicevano vicentini magna gati. Era una sciocchezza, ma i luoghi comuni, a partire da quelli sul cibo, sono tutti abbastanza stupidi. Pensi che del maiale mangiamo tutto e non c’è animale più zozzo, lercio e schifoso che esista. E magari ci stupiamo inorriditi se in quasi 50 nazioni mangiano regolarmente gli insetti o in India la mucca è sacra, venerata e non si può toccare”.
Dell’adorazione televisiva, assicura, sente di poter fare a meno: “Non vivo per stare nel tubo catodico e non dico sì a qualunque programma. So che tutto potrebbe scomparire, ma sono fatalista: se una cosa deve finire, senza tanti discorsi, finisce. Io ho e faccio un altro mestiere. Ciò non toglie che andare in tv mi diverta e che nel mio lavoro non necessariamente chi è considerato il numero uno in un’immaginaria classifica sia davvero migliore dell’ipotetico numero 7. È una professione in cui anche se hai fatto tante cose, non hai fatto ancora niente ed è un lavoro in cui devi essere sorretto dalla convinzione che il meglio debba ancora venire”.
Che i grandi cuochi in fondo si odino tutti, Cracco non lo nega: “Che ci siano invidie e gelosie feroci è naturale”, ma ricorda che condividere la fatica: “Con una squadra di 30 persone aiuta a mettere da parte l’ego e a stare con gli occhi aperti sui talenti. Non sempre sono subito visibili e anzi molto spesso escono alla distanza. Non è raro trovare un giovane più bravo di te e devi saper accettare che qualcuno ti rubi la trovata e la metta in pratica meglio di quanto non abbia saputo fare tu”.
In Italia “almeno in cucina” – nota Cracco – non abbiamo fatto passi da gambero: “Dagli anni 80 a oggi – e lo dico in positivo – sembra trascorso un secolo. Siamo passati dalle pennette alla vodka, dalle tagliatelle panna, prosciutto e piselli, dal ragù con la panna o dal terrificante risotto fragole e champagne che qualcuno ancora si ostina a propinare, alla riscoperta di una grande cucina regionale. Dai favolosi 80 in cui l’eccesso, in una cucina unta e ignorante perfettamente speculare al periodo, era la regola, ai piatti di Marchesi in cui i grassi erano banditi perché – si intuiva – la festa era finita in tutti i sensi”.
Negli anni della Prima Repubblica, Cracco era all’estero: “In Francia, con l’obiettivo di diventare bravo”. Gli è stato riconosciuto e a lui sembra incredibile: “C’è stata un’epoca in cui se dicevi ‘voglio diventare un cuoco’ ti guardavano come un matto. ‘Ma chi te lo fa fare? Guadagni poco e fatichi tanto’”. La tv ha cambiato l’orizzonte: “E all’improvviso il mestiere di cuoco ha smesso di essere considerato un lavoro sfigato”.
A qualcuno ha cambiato l’esistenza. A Vicenza dicono Cò capita un bon bocon, mona chi non ne aprofita. Quando capita un buon boccone, sciocco chi non ne approfitta: “Se siamo riusciti ad allargare i cordoni dell’economia, come ci accusano di aver fatto, significa che siamo stati bravi. Non c’è mica niente di male. O sbaglio?”.