Giampiero Calapà, Il Fatto Quotidiano 3/10/2016, 3 ottobre 2016
I TESORI “ALMENDRÓNES” TRA LE STRADE DI CUBA
Il comandante Ernesto Guevara viaggia da Santa Clara verso la capitale per l’ingresso trionfale a L’Avana dopo aver schiacciato quel che rimaneva dell’esercito di Fulgencio Batista, il tiranno spalleggiato da Washington e dalla mafia italoamericana appena fuggito da Cuba. Un’auto fiammante sorpassa da sinistra la colonna di jeep rivoluzionarie in processione verso la gloria; Guevara, interpretato da Benicio Del Toro, ferma il compañero al volante della fuoriserie decappottabile e ordina, ascoltato, di ritornare indietro: “Restituiscila ai legittimi proprietari”. La Rivoluzione non ruba. È il gennaio 1959, è l’ultima scena di Che, l’argentino, il film del 2008 di Steven Soderbergh.
Quell’automobile che ritorna indietro è simbolo di cosa succederà nel giro di pochi giorni in quel gennaio del ’59. “La Cadillac non aumenta il benessere del Paese”, parola di Fidel Castro. Le importazioni dagli Stati Uniti sono proibite. Il tempo, a Cuba, è cristallizzato dall’inizio dell’epoca rivoluzionaria per molti aspetti della vita quotidiana, uno è il parco-auto dell’isola: un museo a cielo aperto da Maria la Gorda a Baracoa, da Ovest a Est, in cui circolano ancora quasi tutte quelle 180 mila Cadillac, Chevrolet, Pontiac, Plymouth e Ford che sfrecciavano per L’Avana e Santiago prima del trionfo castrista e della sovietizzazione in salsa caraibica della più grande delle Antille. Le chiamano almendrónes, grandi mandorle, per le loro caratteristiche dimensioni e forme, e adesso sono bottino prelibato per chi da Miami e dal resto degli Stati Uniti guarda verso Cuba fregandosi le mani per i possibili affari che seguiranno il processo di distensione avviato da Barack Obama e Raúl Castro. Intanto, però, il bloqueo, l’embargo, vige ancora e gli unici dati certi sono i cambi della guardia: il primo presidente statunitense a metter piede sull’isola dopo 88 anni sarà presto solo un ricordo e un’eventuale vittoria di Donald Trump potrebbe rimettere tutto in discussione. Quanto a Raul, l’eterno numero due di Fidel, ha già fissato la fine della sua presidenza al 2018.
In attesa dell’invasione o della liberazione – dipende dai punti di vista – a stelle e strisce, effettiva o mancata, i proprietari delle auto d’epoca americane in terra cubana scaldano i motori. Le loro almendrónes amate dai turisti sono quotate da 15 mila dollari, quelle messe peggio e usate da taxi collettivi, a cifre sconsiderate per le poche rimaste con ricambi esclusivamente originali. I cubani hanno imparato in questi sessant’anni a metter le mani tra radiatori e candele, sono diventati, per necessità, un popolo di meccanici. Come il padrone di casa del paladar (ristorante privato, non gestito dallo Stato) “Vista al Mar” di Caibarién, cittadina decadente ma magica 354 chilometri a est de L’Avana. Mentre serve ai suoi quattro tavoli un delizioso piatto a base di granchio, racconta della sua auto parcheggiata davanti al paladar, lungo il malecóncito, il piccolo lungomare del paese.
Non una almendrón, la sua vettura, rossa fiammante, è una 126, la piccola di casa Fiat degli Anni 70, e sembra appena uscita di fabbrica. Soltanto che qui la chiamano Polaquito, è il Polako, prodotta su licenza in Polonia per il mercato del blocco dell’Est, di cui Cuba faceva parte. Il motore del Polaquito rosso romba e il proprietario racconta di aver sostituito il sistema di raffreddamento con quello più evoluto della Lada, le Fiat 124 prodotte sempre su licenza nello stabilimento russo di Togliattigrad. Polako, Lada, Moskvich, Volga e cecoslovacche Skoda degli anni 70/80, infatti, completano il parco-auto dell’isola inseme a qualche eccezione di Peugeot, Fiat, Volkswagen, Mercedes e Alfa Romeo importate da Paesi dell’America latina. Più recentemente è comparsa la coreana Hyundai.
Qualcosa comincia a cambiare dalla fine del 2013, quando tra le liberalizzazioni di Raúl c’è anche quella che elimina il divieto di compravendita di veicoli, ma le tasse sulle auto sono altissime, è difficile trovare una vettura in vendita in buone condizioni, per una Hyundai Atos vecchia di dieci anni in discreto stato i più ricchi possono arrivare a offrire 25 mila dollari. Con la crisi venezuelana anche la benzina è un problema e il mercato nero dei taxisti spopola. Cominciano a comparire anche modelli di auto cinesi e dalla Cina arrivano a Cuba i nuovi autobus per il trasporto pubblico delle città. Così, beffe della sorte post-comunista, oggi sull’isola caraibica oltre a scampoli di vecchio Est Europa – come le targhe automobilistiche che segnalano il “privato”, il “turista”, la “società pubblica”, lo “straniero residente” – si possono vedere questi torpedoni con scritte non in spagnolo ma direttamente in ideogrammi cinesi. Lasciata L’Avana, percorrendo l’Autopista Nacional, una striscia di asfalto neppure lontana parente delle nostre autostrade, o lungo la disastrata Carretera Central, i moderni autobus cinesi non viaggiano ancora e il trasporto pubblico avviene su una sorta di carri bestiame, dove si sta in piedi, trainati da grossi e rumorosi camion americani parenti delle almendrónes. Ma nelle zone rurali, come nelle turistiche Viñales e Trinidad, uno dei mezzi di trasporto principali dei campesinos, i contadini, è ancora il cavallo.
Se tutto questo sta per finire, travolto dal progresso e dal consumismo al ritmo di reguetón (vedi l’articolo di Diego López in pagina), ancora non è dato sapere e, comunque, servirà altro tempo. Anche se, per qualcuno, il termine simbolico sarà nell’aprile 2017, data di uscita nelle sale americane di Fast & Furious 8, pellicola yankee in parte girata sul Malecón de L’Avana proprio facendo sfrecciare vecchie almendrónes. Effetto folkloristico a parte, sul grande schermo L’Avana sembrerà maledettamente più simile a Miami di quanto non lo sia davvero, mentre un ragazzo a bordo della sua Plymouth rosa del 1954 forse non sa più neppure cosa significhi davvero il motto del Che “Hasta la victoria, siempre!”, ma ascoltando la sua gracchiante autoradio canticchia il tormentone “Hasta que se seque el Malecón”, fino a che il lungomare non si sarà asciugato, fino a che le cose non saranno cambiate. Cuba aspetta.