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 2016  ottobre 03 Lunedì calendario

Andrés Iniesta, vita di un uomo essenziale

L’eroe della nazionale spagnola al mondiale in Sudafrica è oggi papà di due bambini che forse sgrida meno di quanto dovrebbe. Ma non c’è solo felicità nell’universo di Iniesta. Vive da una vita a Barcellona, ma non ha perso l’accento della Mancia, dove è nato e ha iniziato a giocare a pallone. A “infilare gol”. Così preferisce ancora dire a casa sua, invece che “segnare”. Andrés Iniesta ha appena pubblicato La jugada de mi vida. Un libro di ricordi, dove ripercorre la strada fatta finora accompagnato da più di cento voci. È un giocatore che non lascia indifferenti, reso umano come è dalle sue origini, dal suo destino e dalla sua verità. Preferisce indossare cose che non offendano il buonsenso: «Non voglio che chi mi vede pensi: ma dove va, quello?», dice ridendo. Il padre, José Antonio, è soprannominato Dani in paese, per la sua somiglianza con l’ex giocatore dell’Athletic; Mari, sua madre; Maribel, la sorella... Un giorno dovette lasciarli per inseguire un sogno, poi trasformato in gol e in finte e in una fattoria, il Carril de Iniesta, dove la sua famiglia prendeva un piccolo salario per fare la vendemmia, e da cui oggi viene l’uva delle Cantine Iniesta, dei cui vini è molto fiero.
Questo mese si compiono 20 anni da quando mise piede per la prima volta a La Masia, il vivaio del Barcellona. Iniesta ha preso più calci dalla vita che sui campi da gioco. Ma anche se ha sofferto e ha perso un figlio, sembra più pieno di vita che mai.
“Ho smesso di essere un bambino all’età di 12 anni”, afferma nel libro.
«O forse sono maturato più velocemente. A volte il raccolto è pronto prima del tempo... Non è successo solo a me. Accade a tanti e in circostanze più dure».
“Non ho avuto un figlio”, ha detto sua madre, ricordando che lei andò a vivere lontano da ragazzino. Sono parole dure.
«Sì, fu duro sia per lei come madre che per me come figlio. Spero di aver recuperato gli anni persi nel tempo. Ho fatto quello che ho potuto per ridarglieli. Non è che mi senta in debito con la mia famiglia, ma è una tappa che non torna. Ci siamo dovuti dar da fare per sentirci vicini. Non era come adesso, che i ragazzini hanno il telefonino. Prima c’era una cabina telefonica a La Masia e basta».
Lasciò Fuentealbilla perché voleva fare il calciatore. Era consapevole di che cosa lo aspettasse?
«Non fino a questo punto. Durante il viaggio non feci che piangere. Ma fui io a prendere la decisione, anche se può sembrare incredibile. Nessuno mi ha spinto. Era un mio desiderio. Volevo diventare un calciatore di serie A e quello era il modo più sicuro. Sono andato oltre le mie aspettative. Volevo solo fare il calciatore. Per me e per mio padre».
E ha finito col diventare un eroe.
«Non era la mia intenzione. Non mi ci vedo in quel ruolo, non credo che mi si addica».
Suo padre era un muratore e lei voleva che scendesse dal ponteggio. Quando sono arrivati i milioni, non ha dovuto farlo scendere da qualche nuvola?
«Mio padre? Ha sempre i piedi per terra, su questa terra da cui veniamo. Siamo quello che siamo, tutto qua. Siamo una famiglia normalissima, a volte qualcuno dice anche troppo. I miei sono così, gente umile. Come i miei nonni. E come me».
I suoi genitori e sua sorella ne hanno passate tante. Poi lei va a Johannesburg, segna e nessuno dei tre vede il gol. Che cosa dimostra?
«Non hanno pazienza. Che ci possono fare? Quando una partita è sofferta, mio padre se ne va, non la vede fino alla fine. E una importante, una semifinale di Champions per esempio, non la va proprio a vedere. Ognuno ha il proprio modo di essere, nella mia famiglia siamo fatti così».
Ha toccato il cielo vincendo una Coppa del Mondo, ma ha anche scoperto il vuoto, ha toccato il fondo...
«Sì, è una sensazione difficile da spiegare. Ci sono momenti in cui ti sembra di precipitare, non hai più nulla e ti devi ricaricare».
“La testa è molto fragile”, lei dice.
«Sì, è molto delicata e bisogna essere pronti a tutto... E... sì, è molto fragile. Improvvisamente, non sai bene perché...».
La gente si vergogna molto di riconoscere che va da uno psichiatra o dallo psicologo. Non è il caso suo.
«Sono lì per questo, no? Per aiutarti quando ne hai bisogno. Suppongo che dipenda dal fatto che non lo vuoi ammettere. A un certo punto ho sentito che avevo bisogno di aiuto e l’ho trovato; certi giorni non uscivo, mi rinchiudevo in me stesso. E ho trovato delle persone che mi hanno aiutato, gente di grande valore. È molto brutto sentire che non sei più tu. Ero una persona fisica, ma dentro non ero nulla, non ero io. Tu vedi una persona, ma dentro non sai che cosa ci sia. E quando mi vedevi, dentro non ero io. È difficile spiegartelo se non l’hai provato. Fisicamente ero io, andavo ad allenarmi, ma dentro avevo il vuoto, l’insicurezza, il nulla. Non ero felice».
È un modo di difendersi?
«No. La mia esperienza è stata un’altra. Mi sono convinto che tutti, nella vita, passiamo attraverso momenti simili, chi più e chi meno. Devi accettare che non stai bene, che sei triste, che non sei più tu. Stai con gli altri, ma il cervello non ti lascia in pace. Hai una sensazione di totale insicurezza».
Che cosa le fa paura, adesso?
«Ho le tipiche paure di un padre, quelle fondamentali. Mi preoccupo che i bambini siano in buona salute, che la famiglia stia bene, queste cose. Sono molto essenziale».
È noioso?
«No, non mi considero noioso. A porte chiuse, con i miei cari, non sono noioso. Forse in una conferenza stampa, sì, ma con i miei cari non credo. Insistente, ostinato, fissato sì, ma non credo di essere noioso. A modo mio, naturalmente».
Ha segnato il gol del Mondiale grazie alla sua tenacia?
«Può darsi. Se non fossi testardo non mi sarei ripreso dall’infortunio. Volevo giocare il Mondiale e ce l’ho fatta. Sono molto tenace. Sono molto disciplinato. E obbediente. Soprattutto, molto tenace».
Piangeva molto?
«No. Non ricordo che piangessi. In certi giorni volevo solo andare a dormire, per riposare».
Qualcuno l’ha paragonata alla vite, che riesce a portare frutto anche tra sassi e argilla. Lei riesce a fare dei passaggi impossibili, circondato da sette avversari, si è fatto strada a La Masia tra le lacrime...
«Può essere, non è un brutto paragone. Ho dei valori molto legati alla terra, alla campagna».
Che tipo di papà è? È più facile affrontare la difesa avversaria?
«Molto di più! Come padre, pensavo che sarei stato in un modo e invece sono diverso. Dici: “Quando avrò dei figli farò questo e quello”, credi che avrai tutto sotto controllo e alla fine non è affatto così. Essere padre è più difficile che giocare contro il Real Madrid. Il Clasico dura 90 minuti, ma i figli sono per tutta la vita e non sai mai se stai facendo le cose nel modo migliore. Sul calcio hai le idee più chiare. A casa, non ti danno tregua, ma è divertente».
E come marito?
«Non lo so, chieda a mia moglie! Penso di essere un marito premuroso. La coccolo. Penso di essere abbastanza romantico. Cerco di essere attento a ogni sua esigenza. E anche lei è così. Si prende tanta cura di me. L’ho conosciuta per caso e ringrazio ogni giorno il fatto di avere incontrato Anna».
Guardiola dice che lei gioca in punta di piedi. Anche a casa, con i bambini, si muove in punta di piedi?
«No, a casa non ti smarchi, con quei due non c’è niente da fare. Certi giorni pensi: “Ma non vanno mai a dormire?” Certo, con la tata, c’è pace e tranquillità, ma il piccolo non si ferma mai, dovreste vederlo! Non sta mai fermo!».
Li sgrida spesso?
«Meno di quanto dovrei fare, ma qualche sgridata arriva. Sì, a volte ci vuole».
Parla di Andrés, il figlio non nato, come se fosse molto presente.
«Perché l’ho visto. Era un feto, ma l’ho visto. La mamma non era in condizioni di poterlo vedere, poverina, stava già abbastanza male, ma io sì. È stata un’esperienza dura, ma lo sento molto vicino, fa parte di noi».
Dove si immagina tra 10 anni?
«Non faccio molti progetti per il futuro. Tutto cambia in un attimo. Tra quello che immagini e quello che succede davvero... meglio non fare progetti».
È cominciato il raccolto a La Anchuela?
«Sì, ieri. Fuentealbilla è un via vai di trattori. È molto bello il paese».