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Marchionne, il destino e il dovere
la Repubblica
Spesso conosciamo una persona solo dal modo in cui ci lascia. Ecco perché si dice che finire è importante in tutte le cose. Sergio Marchionne ha cominciato a fare i conti con la fine più di un anno fa, stringendosi a due sicurezze cui era affezionato. Parole sue. La prima, che siamo tutti in qualche modo dei sopravvissuti e dobbiamo dunque continuare a sopravvivere. La seconda, che non possiamo mai dire: le cose vanno bene. Semmai: le cose non vanno male. Parole che incorniciano il carattere dell’uomo e le qualità del grande capitano d’industria qual era, figure distinte ma in lui inscindibili. Fatte di lotta e solitudine portate fino all’estremo dei confini tracciati dai codici di comportamento. A costo di apparire arrogante. Così ha vinto, così ha perso.
Negli ultimi anni ha avuto un altro chiodo cui agganciare la sua personalità, la donna che amava, l’unica che sapeva la verità sulle sue condizioni. Condannata, come solo un forte sentimento ci può imporre, a un silenzio che deve essere stato straziante perché insormontabile, un altro peso da portare sulle spalle nell’ultimo tratto del cammino di una coppia che aveva ancora poca vita felice dietro di sé. Lei, Manuela, compagna del capo dell’azienda di cui era dipendente, chiamata a una doppia fedeltà: all’uomo che amava e ai vertici per cui lavorava. È stata posta di fronte a una scelta terribile, ma la natura, se non fosse bastato il cuore, le ha fatto propendere per la sola possibile.
Ha sbagliato dunque Sergio Marchionne a non avvisare Fca della sua grave e non improvvisa malattia, un atto di sincerità che avrebbe consentito al gruppo di ragionare anche con lui su una successione non traumatica? Da amministratore delegato sì, perché così avrebbero suggerito il mondo dei numeri, della finanza e dei profitti, le regole dettate dagli organismi di vigilanza dei mercati italiani e americani. Ma anche il rapporto non solo professionale che lo legava con il presidente John Elkann, tenuto all’oscuro fino agli ultimi giorni, costretto a decidere un cambio così importante e decisivo per il futuro nello spazio di ventiquattro ore, dopo aver saputo dai famigliari di Marchionne semplicemente che «Sergio non sarebbe più potuto tornare a lavorare».
Ma ci sono i doveri del manager e il sangue caldo della vita vissuta a mille all’ora che si mischiavano e scorrevano nelle vene di un uomo che da tempo sapeva di essere malato, di essere entrato in un universo parallelo dove spesso gli oggetti e i pensieri cambiano forma e rilevanza. Forse Marchionne ha cercato ancora una volta di dominarli entrambi, il dovere e il sangue. Da paranoico qual era in senso buono, «dobbiamo essere paranoici» annunciò quando arrivò alla Fiat; e ancora una volta da solo. Aveva un programma scritto, obiettivi da raggiungere, un’azienda da tutelare (magari ha pensato: che accadrebbe se me ne andassi con quasi due anni di anticipo?), desideri da meritarsi: l’azzeramento del debito, il Mondiale di Formula 1 con la Ferrari, il congedo da Fca non prima della primavera 2019. E, perché no, una sfida con un destino doloroso che già in passato si era accanito con i suoi cari: sconfiggere la malattia.
Era il metodo Marchionne, non presunzione e nemmeno un atto inelegante nei confronti di una famiglia e di una storia industriale che quasi quindici anni fa si erano affidati a lui per sopravvivere storicamente. Era anch’egli un sopravvissuto e sperava di sopravvivere anche questa volta. Chissà, forse ne era convinto e ripeteva a se stesso che le cose non stavano andando bene, ma neppure così male. Sotto il maglione questa volta c’erano solo l’uomo e la sua voglia di vivere. Poi è arrivata una lieve imprecisione nel corpo misterioso e fragilissimo che è quello di noi umani, e nulla più è stato ciò che avrebbe dovuto essere.Dario Cresto-Dina
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