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 2018  luglio 28 Sabato calendario

«I tortellini al sugo, no». Intervista a Filippo Venturi, ristoratore-scrittore

“L’altro giorno un cliente mi ha chiesto le coscette di coniglio. Solo quelle di sinistra, però. Forse aveva idee politiche precise”. Parlando con Filippo Venturi non capisci se è un ristoratore, uno scrittore o un comico. E per quanto si possa e si debba “fare la tara” rispetto a ciò che racconta (“Non potrei descrivere per filo e per segno i miei clienti, diciamo che è più un esercizio letterario”, anche perché tornerebbero a cercarlo), i suoi ritratti sono la giusta vendetta per le recensioni moleste di TripAdvisor.
Avvocato mancato, titolare di un ristorante bolognese doc da vent’anni, Venturi ha esordito nella scrittura nel 2010, quando la casa editrice Pendragon ha pubblicato i suoi racconti sulla Bologna degli anni Ottanta, Intanto Dustin Hoffman non fa più un film, chiaro richiamo al primo album di Luca Carboni. Da allora, ha scritto altri due romanzi, è titolare di una rubrica su Repubblica in cui recensisce i clienti ed è da qualche giorno in libreria con Il tortellino muore nel brodo, un ironico thriller che divaga tra le tagliatelle e le colline attorno al capoluogo emiliano. Protagonista è Emilio Zucchini, un ristoratore con il fiuto da detective che si trova a indagare su una strana, doppia rapina e sulla sparizione della figlia del suo migliore amico.
Venturi, è lei Zucchini?
Ha un percorso molto simile al mio: è laureato in Giurisprudenza, ma non ha avuto forza, coraggio e voglia di proseguire. Come me, voleva fare qualcosa di più originale. E lo dico perché vent’anni fa a Bologna mica era comune aprire un ristorante… Adesso, mi passi la battuta, la ristorazione è diventata quella che un tempo era Scienze politiche. Emilio ha come me questa passione per la cucina bolognese che gli è stata tramandata dalla nonna. Ma, a differenza mia, non ha avuto la fortuna di farsi una famiglia, è bravo ai fornelli e soprattutto sa ascoltare. Quasi quasi sono io che vorrei essere lui.
Il celebre Pellegrino Artusi è stato il protagonista di un romanzo di Marco Malvaldi, che ha al suo attivo anche la serie del BarLume. Si è ispirato a lui?
Leggevo Malvaldi ancor prima di iniziare a scrivere. È un onore questa citazione. Però c’è una differenza: io sono un ristoratore davvero, faccio questa professione e la farò per sempre. Però magari anche quella di Zucchini, se il pubblico la amerà, diventerà una saga.
Sullo sfondo di ogni suo scritto, c’è Bologna. Com’è cambiata la città dagli anni Ottanta a oggi?
È cambiato il mondo intero. Siamo di fronte a una nuova fase, sociale prima che politica. E ovviamente Bologna recepisce il cambiamento. Quando ero bambino era un grande paesone, oggi è una piccola metropoli, con tutti i suoi problemi. Rimangono le radici ben piantate nella tradizione: è una città aperta, solidale, accogliente. Non vorrei, però, che assorbisse le paure che stano girando, che diventasse razzista. E poi rimane la radice per eccellenza: la cucina. La sfida è mantenere viva la tradizione.
La cucina è degli chef o dei cuochi?
Oggi è tutto sofisticato, si getta fumo negli occhi sui nomi delle pietanze. Sono contento che, grazie a Masterchef e agli altri programmi televisivi, ci sia grande attenzione verso la mia professione, ma è fastidioso che si sentano chef anche coloro che al massimo hanno cotto un uovo alla coque. Sei alla mercé di un cliente che ne sa un po’ meno di te.
E da qui il suo TripAdvisor al contrario…
In questo clima da onniscienza culinaria da format tv, a me piace confrontarmi con i clienti, soprattutto se c’è rispetto reciproco.
A Roma c’è stato il caso di un cameriere che ha insultato una coppia omosessuale su uno scontrino.
Da me non sarebbe neanche stato assunto. Detto questo, se un mio collaboratore sbaglia, la colpa è mia.
Il suo Zucchini sostiene di saperli classificare non appena varcano la soglia del ristorante.
È fondamentale riconoscere i clienti, capire chi hai davanti e comportarti di conseguenza. C’è quello che vuole essere lasciato perdere, quello che cerca la confidenza, quello che ha fretta o quello cui devi dare del lei. Fermo restando che nel piatto ci deve essere lo stesso amore, che tu stia servendo un notaio, una rockstar o un operaio.
Le richieste più strambe che le sono capitate? 
Un signore mi ha chiesto se facevamo l’uovo fritto nell’olio del filetto. Dopo aver raccontato questo episodio, che mi sembrava curioso, sono stato costretto a scusarmi perché c’è davvero un posto vicino Bologna dove lo fanno.
E gli stranieri?
L’altro giorno sono venuti cinque cinesi, avevano in mano un cono gelato enorme e si sono seduti a tavola con quello. Ho pensato potesse essere un buon antipasto… Poi, quando ho servito le lasagne, si sono lamentati perché la crostina era bruciacchiata. E come glielo spiegavo in cinese che a casa mia, da bambini, ce la litigavamo quella crosta?
Da chi riceve i complimenti maggiori?
Dalle “ragazze forever”: le signore come mia mamma, che vengono con una grande voglia di divertirsi e apprezzano ciò che fai perché sanno quanto è difficile mettere a tavola le persone.
Dice mai “no” alle richieste dei clienti?
La cucina bolognese ha regole rigide che vanno rispettate. Se un bambino mi chiede i tortellini alla panna glieli fai, ci può essere tolleranza fino al ragù. Ma il sugo mai.
E se becca una recensione cattiva?
Le leggo tutte, perché magari ce ne sono di costruttive. E, se proprio devo, intervengo in modo ironico. Un signore mi ha scritto che non sarebbe più tornato perché non aveva avuto la cotoletta come voleva lui.
Cos’ha risposto?
Ho fatto rispondere alla cotoletta: “Vienimi a salvare, portami via da questi che mi vogliono imprigionare negli schemi della tradizione”.