Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Renzi è talmente forte in questo momento che i numerosi fatti che lo riguardano, tutti accaduti ieri, sembrano poca cosa. Si tratta di fatti, a prima vista, rilevantissimi. E però, a un’analisi più ravvicinata, del tutto inconsistenti.
• Discorso incomprensibile.
Prendiamo l’incontro con i sindacati, vale a dire prima con Cgil, Cisl, Uil e poi con la Confindustria. Sembrerebbe capitale: il governo sta pensando a una nuova legge sul lavoro, colpevolmente battezzata "Jobs Act", e affronta le controparti per eccellenza, cioè i rappresentanti dei lavoratori e quelli dei padroni. Al tempo dei tempi avremmo atteso col cuore in gola l’esito del confronto, che si sarebbe prolungato per giorni e giorni, anzi per notti e notti, e di cui avremmo colto il lato umano in quelle riprese televisive di tavoli lunghissimi, colletti slacciati e montagne di bicchieri carta. Invece Renzi ha dato ai sindacati degli uni e degli altri un’ora di tempo, convocandoli alle 8 di mattina - che equivale agli appuntamenti alle tre di notte per cui era celebre Francesco Giuseppe, che oltre tutto accoglieva l’ospite nudo nella tinozza da bagno - e chiarendo in anticipo che avrebbe parlato soprattutto lui, e poi i sindacati dicessero quello che volevano, il tempo tanto era scaduto. E infatti così è andata: il premier ha spiegato che avrebbe presentato un maxi emendamento al Jobs Act nel quale sarebbero state recepite le ultime intese, vale a dire chiamata in causa del giudice per i licenziamenti discriminatori e disciplinari, forte spinta sulla contrattazione aziendale a discapito di quella nazionale, tfr in busta paga se le piccole e medie imprese sono d’accordo. L’incontro s’è risolto in ben poca cosa e non importa che poi, in conferenza stampa, Renzi abbia parlato di importanti accordi raggiunti, «ascoltiamo tutti» (ma non ci facciamo fermare da nessuno) e così via. Registriamo l’opposizione malinconica della Cgil che darà luogo a tutte le iniziative di contrasto compreso lo sciopero del 25 ottobre, mentre la Cisl con la nuova prossima segretaria Annamaria Furlan (Bonanni non s’è visto) ha detto di essere sostanzialmente d’accordo su tutto e quanto ai contratti territoriali loro quest’anno ne hanno firmati già tremila. La Uil per ora sta alla finestra.
• Ho l’impressione che la storia dei contratti aziendali sia più importante delle diatribe intorno all’articolo 18.
Sì, perché rompe un altro tabù sindacale, e cioè quello che tutti i lavoratori dipendenti devono guadagnare lo stesso stipendio non importa se l’azienda in cui si trovano sta in una zona depressa o no, se esporta o no, se è ricca o no. Qui c’è l’intesa con Marchionne, Renzi punta a rendere nazionale l’esperienza di Pomigliano. Mentre Landini minaccia l’occupazione delle fabbriche, il premier nei giorni scorsi ha fatto sapere di aver suggerito a Finmeccanica, Eni, Enel e le altre grandi aziende pubbliche di uscire da Confindustria.
• È irrilevante anche la storia del voto di fiducia?
A rigore devo dirle che questo è uno dei pochi casi in cui il voto di fiducia, previsto al Senato per oggi, ha un senso. Il governo dà alla riforma del lavoro un’importanza capitale e se il Parlamento non è d’accordo è giusto che si dimetta.
• Ma si tratta di una legge delega. Cioè le vere norme saranno scritte dopo e si chiede al Senato di accettarle quasi a scatola chiusa prima.
Il punto dirimente è il cosiddetto licenziamento per ragioni disciplinari. Alfano vuole che nella legge futura siano precisati minuziosamente i casi che possono essere definiti «disciplinari». «Altrimenti è tutto inutile e la parola torna in sostanza ai giudici». Renzi s’è tenuto sul vago, ma è chiaro che renderà questo punto il meno esplosivo possibile.
• E se pezzi del Pd gli votassero contro?
Chi se ne intende dice che al Senato non c’è troppo rischio e che il vero pericolo è alla Camera, dove Bersani e D’Alema sono molto più forti. Civati minaccia di farsi un altro partito, ma la cosa non sembra spaventare nessuno. Renzi oggi a Milano incontra la Merkel e vuole farle vedere che la riforma del lavoro ha superato il primo ostacolo. Da Berlino fanno sapere che l’idea del tfr in busta paga è buona. Arrivano apprezzamenti anche dal Fmi (Olivier Blanchard), il quale però fa sapere che secondo i suoi calcoli nel 2014 l’Europa crescerà di appena lo 0,8% (-0,3% sul 2013) mentre gli Stati Uniti viaggiano al 3,3%. L’Italia scenderebbe di uno 0,2 quest’anno e salirebbe l’anno prossimo di un +0,8. Renzi spera di far ripartire la domanda mettendo la liquidazione in busta paga. Problemi di gestione complicatissimi, ma se tutto andrà in porto ci sarebbero 1200-1500 euro l’anno netti per tutti da erogare in febbraio. Il fisco potrebbe incassare dall’operazione cinque miliardi, soldi che sarebbero adoperati per abbattere l’Irap.
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