3 maggio 1951
Il conformista e il ribelle
La Stampa 3 maggio 1951
«Questo romanzo vuole essere la storia del prezzo pagato da un conformista moderno, per ottenere di appartenere a una società inesistente». Ora, la storia è lurida, e sovente inverosimile. Marcello, sin da bambino, mostra istinti anormali e gusta piaceri crudeli. Sviluppandosi, fa di peggio: indotto da un misterioso chauffeur a seguirlo in camera sua, intravvistine appena gli osceni propositi, gli spara addosso, e lo lascia per morto. Qui finisce il prologo. Venti anni dopo, il ragazzo è diventato un impiegato statale, ramo poliziesco. Suo padre è in manicomio; sua madre, morfinomane, che dorme fra una dozzina di pechinesi, è l’amante di un altro chauffeur. Il capo del dicastero in cui Marcello presta servizio, riceve in ufficio donne di partito, e organizza delitti. Propone infatti al nostro conformista di recarsi in Francia per entrare in confidenza con un eminente fuoruscito, e intrappolarlo, onde facilitarne la cattura e la morte. Marcello, per meglio mascherare la sua nobile missione, combina l’incarico col proprio viaggio di nozze. Giacché si è deciso a sposare la figlia di un altro burocrate, la quale, in vagone letto, gli confida di esser stata, per sei anni, l’amante di un superiore del padre: la rivelazione, non gli fa né caldo né freddo. Un grazioso intervallo del viaggio, è la sosta in una cittadina francese dotata di uno stabilimento a tariffa, dove si danno convegno il novello sposo e due altri emissari del complotto. Ripreso il treno, Marcello e un suo subordinato arrivano a Parigi, e il primo si reca a trovare il fuoruscito, di cui era stato allievo. La moglie del professore è una anormale: colpo di fulmine di Marcello per lei, e di lei per la moglie del nostro eroe! Il fuoruscito babbione, sa da che piede la moglie zoppica, indovina che cosa il suo ex-alunno gli prepara, ma lascia che il quartetto si formi, e vada a un ristorante, dov’egli sarà, da Marcello, additato gli scherani. Il conformista vuol la moglie del fuoruscito; costei, quella del primo: giochetti e dispetti amorosi, sogguardati dietro le porte, come già Marcello faceva al ministero; o francamente dibattuti in ambienti speciali. In conclusione, la moglie di Marcello non ci sta; e l’altra, inaspettatamente, segue il professore fuoruscito che parte per la Savoja. Non vi arriverà mai, poiché i sicari attendono la coppia: lesbica, ma coraggiosa, la signora si difende invano, e i corpi di entrambi, sono trovati in un bosco. A cose fatte, Marcello riparte: un eccellente viaggio di nozze, guastato solo dal sapere, al ritorno in ufficio, che il delitto politico a cui ha partecipato, non avrebbe dovuto più avvenire, per la momentanea convenienza di non invelenire le relazioni franco-italiane. Ma il contrordine, ahimè, giunse troppo tardi. Buon padre di famiglia, cittadino esemplare, burocrate romano, il conformista si sente bene inquadrato nel regime. Tanto da non accorgersi che gli sta arrivando, pian piano, fra capo e collo, il 25 luglio. In quel giorno memorabile, egli erra stupito tra le altrui grida di tripudio, mentre la moglie saviamente si preoccupa della casa appena messa su, e teme che Marcello debba pagare, oltre le rate della mobilia, il conto di quella faccenduola parigina. Per fortuna, gl’italiani hanno altro da fare che pensare ai Marcelli, e la coppia felice e tuttavia meditabonda, se ne va la sera a fare all’amore sui prati. Proprio sul più bello, arriva una guardia con una lampadina: chi è? Nientemeno che l’ex-chauffeur lasciato per morto dal conformista vent’anni (o trenta) prima, e divenuto guardiano della pubblica morale. Il passato dunque si ricongiunge al presente: simbolo! La prudenza e la guerra, consigliano a Marcello di lasciar Roma per Tagliacozzo: via in macchina marito, moglie e prole. Ma la vendetta celeste è in agguato: un aeroplano scende a mitragliare, e nessuno dei tre si salva. Exit il conformista con tutta la famiglia, epilogo.
Alberto Moravia è scrittore di troppo ingegno, e quindi meritevole di rispetto e franchezza, perché mi dilunghi a sottolineare la sconvenienza da lui commessa, manipolando, per una vicenda così triviale, fatti e persone della recente cronistoria politica; anche se siano da escludere richiami biografici imperdonabili, rimangono coincidenze, sono adombrate situazioni estremamente spiacevoli. Eppure, Il conformista, salvo il prologo e l’epilogo, cioè le due apparizioni dello chauffeur, che non stanno in piedi e sono schiettamente ridicole, si legge come un romanzo d’appendice; direi quasi si divora. Nondimeno, sbollita la prima impressione, caduta la curiosità delle scene lascive, frequenti e non sempre indispensabili, e subentrare l’analisi e la riflessione, cominciano i guai. Moravia non è mai stato scrittore d’arte, e il suo impasto stilistico, qui è più povero e meccanico che altrove. Il suo protagonista non è figura umana, bensì pupazzo; il fuoruscito, caricatura; la moglie di lui, vampiressa da cinematografo; padre e madre sciagurati, creature già note. La creazione vera del romanzo, il personaggio originale, è Giulia, la sposa del conformista, stolida e astuta, sensuale e pruriginosa, una donna viva, completa, irrimediabilmente volgare, falsa e naturale insieme. Il conformista si salva per lei; e accanto alla sua immagine possiamo conservare quella del poliziotto che assolda i sicari, e della ragazza dello stabilimento. Tutte le altre, sono convenzionali, e di mestiere, sia pure abile e ingegnoso. Quanto al protagonista, Moravia indubbiamente è stato tentato dal tema della normalizzazione sessuale ottenuta mediante una disciplina politico-ideologica, ch’è la storia di A. C. Swinburne passato dalle cure della cavallerizza Ada Menken alla predicazione libertaria di Mazzini. Tuttavia, questa è proprio la parte più debole del Conformista, i cui istinti eterodossi sono appena accennati, mentre per quattro quinti del libro fa figura di homme à femmes. Inoltre, Moravia ha trascurato la formazione mentale del suo eroe, fascistizzantesi pel gusto di vivere inquadrato e al sicuro, però scarsamente attento quando non indifferente alla mistica del regime, al prepotente nazionalismo misto al senso di superiorità piccoloborghese, che costituirono la vera armatura dottrinaria del P.N.F. e dei suoi adepti.
Miglior preda, Moravia avrebbe difatti trovato volgendosi a contemplare e descrivere il mondo di Michel Mourre. La cui ansia, deriva dalla incapacità di entrare nei quadri della società che ebbe a dargli i natali, l’anno di grazia 1928. Un padre mangiapreti, radicalsocialista, e che correva la cavallina; una madre malata di cancro, esaltata, che evocava gli spettri coi tavoli; uno zio fascistizzante, in rotta con gli altri membri della famiglia tutti repubblicani atei e patentati, al povero Michel, presto orfano della madre, trascurato dal padre passato a nuove nozze, espulso dalla matrigna, non rimase che l’affetto di una nonna. Era il giugno 1940, e i tedeschi entravano a Parigi: il dodicenne vide il padre pétainiano (in attesa di diventar degaullista), il nonno, della generazione di Clemenceau, tener duro e scagliare invettive, gli altri, piegarsi alle circostanze. Nel 1944, a scuola, s’iscrisse fra i seguaci di Doriot; qualche mese dopo, registrato collaborazionista, fu arrestato, e la Liberazione gli procurò il carcere. Ci tornò, per poco, nel 1945, poi lo lasciarono tranquillo, anzi l’assunsero al Ministero della Ricostruzione!
Nel frattempo, Mourre aveva scoperto Maurras, in galera; e l’Action francaise, clandestina, e si abbeverava a quelle fonti. Natural rivolta di un giovane contro le tradizioni famigliari, conformi agl’ideali della Troisième laica, rivolta sfogantesi in chiacchierate da studenti, giovanili e innocenti amori, distribuzione di manifesti, propaganda elettorale, spirituali amicizie: «Nous n’avions lu, ni Gide, ni Proust». A questo punto, comparve il problema religioso, Mourre cominciò a veder dappertutto Dio. Sono i migliori capitoli di Malgré le blasphème, i più curiosi psicologicamente. Battezzato a 18 anni, il futuro ribelle fa il primo tentativo di entrare in seminario; nel 1947, cerca la pace dell’animo fra i domenicani, ma all’ultimo momento torna indietro. Ritenta al principio del 1949 in un convento provenzale, dove rimane alcuni mesi. Come per molti della sua specie, attirati dall’autorità della Chiesa, senz’esser prima passati per le vie della fede, la contemplazione è dura, la vita monacale arida e vuota: basta che gli capiti una rivista di filosofia con un articolo di Heidegger, perché Mourre capisca di aver sbagliato strada, e lasci l’abito. Il nuovo asilo è Saint-Germain des Prés, e tornato nel tumulto della gioventù cosmopolita, Mourre è offeso dalla mondanità dei predicatori di Notre Dame, dalla religiosità dei benpensanti, e rimuginando confusi pensieri, decide di ascendere il pulpito di Notre Dame, e di proclamarvi la morte della divinità. Messo in atto il progetto, lo pigliano in custodia i poliziotti prima, gli psichiatri poi: scenette e figurine da commedia, dall’agente che gli dice: – Bisogna pur che ci sia della gente come voi, per far divertire gli altri! – al medico alienista che ne constata il normale comportamento sessuale, e gli risparmia la prigione, una volta assicuratosi che Mourre non ha le orecchie scollate! Conclusione: il nostro ribelle non ha cavato nulla dal suo politicare, ha raté la sua vocazione religiosa, non gli resta che scrivere un libro, dopo tutto, interessante e spiritoso, e aspirare ad essere «un pover’uomo, un uomo comune, una persona qualunque...». Ossia un conformista.
Arrigo Cajumi