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 2010  marzo 08 Lunedì calendario

Questioni politiche ed elezioni

• Gli sviluppi del pasticcio delle liste sono clamorosi. Riassumiamo questo primo atto: a mezzogiorno di sabato 20 febbraio il signor Alfredo Milioni, ex autista dell’Atac incaricato di consegnare la lista dei candidati romani del Pdl alle prossime elezioni regionali del Lazio, non si faceva trovare nel luogo previsto del tribunale di Roma. Risultato: liste escluse dal voto. Richiesto di spiegare il ritardo, Milioni diceva di essere andato a mangiare un panino. Il ricorso della candidata presidente del centro-destra, Renata Polverini, subito presentato alla Corte d’Appello, era respinto. Sghignazzi e sdegni avevano già cominciato a far vibrare l’aria della campagna elettorale, quando da Milano annunciavano che la Corte d’Appello aveva bocciato anche il listino di Formigoni, con ciò escludendo del tutto dalle elezioni di quella regione sia il Pdl che la Lega.

• Il pubblico, che mette abbastanza disinvoltamente i segni X sulla scheda elettorale senza stare a pensar troppo a come questi X saranno conteggiati dopo, apprese così dell’esistenza del cosiddetto ”listino” e di uno strano sistema elettorale per le Regioni che va avanti da una quindicina d’anni senza che nessuno dei cittadini – onestamente – ci abbia mai fatto troppo caso. Di che si tratta, alla fine? Nel 1995, al culmine di una discussione accesissima sulla filosofia e la tecnica dei sistemi elettorali planetari (Benigni ci costruì sopra un intero monologo comico), il Parlamento varò una nuova legge elettorale valida per le Regioni e detta in gergo Tatarellum, dato che il primo firmatario e promotore era Pinuccio Tatarella, illustre esponente del Msi e di An (è poi morto nel 1999, a soli 64 anni). Questo sistema prevedeva l’attribuzione dell’80 per cento dei seggi col sistema proporzionale, quindi se tu, Partito XY, prendi il 10 per cento dei voti ti toccano il 10 per cento dei seggi. Il restante 20 per cento dei posti disponibili veniva attribuito col sistema maggioritario. Il lettore ricorderà che nel sistema maggioritario si scontrano non i partiti, ma i candidati. Tanti candidati e il più votato entra in Parlamento (sistema a un turno) oppure tanti candidati e, se nessuno supera il 50% dei voti, i primi due vanno al ballottagio (sistema a due turni). Nel Tatarellum il maggioritario è a un solo turno e a scontrarsi sono i candidati al ruolo di governatore, o presidente: chi prende più voti vince. Il diavolo si nasconde nei dettagli che rendono possibile questo sistema ibrido. Nel proporzionale ogni lista di partito deve dichiarare nella scheda pre-stampata a quale governatore è collegata, cioè deve sostenere pubblicamente uno dei candidati del maggioritario. Al momento del voto, quindi, l’elettore può:

 - mettere un X sulla lista e sul nome del governatore sostenuto dal quella lista;
 - mettere un X sulla lista, e basta, senza indicare il nome del governatore. In questo caso, al governatore collegato si attribuisce automaticamente un voto;
 - mettere un X su una certa lista e votare il nome di un governatore sostenuto da un’altra lista.

Potrebbe quindi verificarsi il classico caso di ingovernabilità: il presidente Tizio, eletto nel maggioritario, potrebbe trovarsi di fronte un’assemblea dominata dal partito Caio, vincitore nel proporzionale. Per evitare questo stallo, il Tatarellum prevede che ogni governatore si porti dietro una lista di candidati personali (ecco ”il listino”), che entreranno con lui nel Parlamento regionale solo se lui sarà eletto. A questa regola sono annesse varie altre tecnicalità che risparmiamo al lettore. Il punto sostanziale è che ogni lista in gara nel proporzionale è collegata, obbligatoriamente, a un candidato governatore e al suo listino. Ribadiamo: «e al suo listino».

• Ora, nel pomeriggio di lunedì 1° marzo, la Corte d’appello di Milano ha ritenuto irregolare proprio il listino dei 16 candidati destinati a entrare nel consiglio regionale lombardo se Formigoni sarà eletto. Questo listino, per esser valido, deve essere sostenuto da almeno 3.500 elettori e quello di Formigoni era accompagnato da 3.935 firme, dunque in apparenza nessun problema. Ma i radicali – che a Roma avevano giùà bloccato la lista del Pdl – presentarono ricorso anche a Milano sostenendo che troppe delle firme del listino Formigoni erano irregolari. I tre giudici della Corte d’Appello, esaminato il fascicolo, trovarono che effettivamente 514 di queste firme erano prive dei timbri previsti oppure senza la data e il luogo dell’identificazione, insomma le firme realmente buone erano 3.421 e quindi il listino non poteva essere ammesso. Però senza listino non poteva essere ammessa neanche la candidatura di Formigoni. E se cadeva la candidatura di Formigoni dovevano venir meno anche le liste del proporzionale che lo sostenevano. Cioè, niente di meno, che la lista del Pdl di Berlusconi e quella della Lega di Bossi.

• Passati un paio di giorni tra appelli, dichiarazioni, editoriali sullo stato in cui è ridotta la nostra classe politica, specchio peraltro del Paese, discorsi sul vulnus inferto alla democrazia, preoccupazioni di Di Pietro e Bersani entrambi assai pensosi del brutto effetto che avrebbe fatto in generale la vittoria a tavolino, finalmente Napolitano – chiamato di continuo in causa da questi e da quelli benché non c’entrasse assolutamente niente – rientrava da una visita di stato a Bruxelles e poteva ricevere Berlusconi al Quirinale. Erano urla. Berlusconi voleva ricorrere a un decreto legge che in qualche modo riammettesse tutti senza troppe discussioni. Secondo lui, le esclusioni di Roma e di Milano erano frutto di un complotto i cui esecutori erano i radicali, ma la cui mente era nel cuore del cuore del soviet comunista che manovra il centro-sinistra. Napolitano, alzando alla fine la voce a sua volta, lo informava che qualunque norma ”innovativa” sarebbe stata respinta, cioè non controfirmata dal Capo dello Stato, «e vedremo chi avrà la meglio in un conflitto di attribuzione» (più o meno). Si finiva con il concordare un ”decreto interpretativo”, cioè qualcosa di cui non s’era ancora mai sentito parlare, concordato con gli stessi legali del Quirinale, un decreto cioè che, con l’aria di «non innovare», forniva un’interpretazione “autentica” delle norme in vigore. Interpretazione che, rendendo possibile ogni testimonianza a favore (caso di Roma) e depotenziando il valore legale dei timbri (caso di Milano), apriva di fatto alla riammissione di tutti. Era venerdì sera, 5 marzo. Portato di corsa il testo al Quirinale, Napolitano lo firmava subito per renderne possibile la pubblicazione sulla Gazzetta del 6, giorno in cui si sarebbe riunito il Tar lombardo (listino Formigoni, infatti riammesso). Il decreto-legge, come il lettore ricorderà senz’altro, ha immediato valore di legge, salvo un’approvazione del Parlamento da darsi in 60 giorni, quando cioè le elezioni regionali saranno state ampiamente disputate.

• Ci troviamo adesso con un centro-sinistra, non più pensoso, che promette sfracelli, Di Pietro vuole l’impeachment di Napolitano, si annunciano manifestazioni oceaniche per sabato 13, Napolitano ha personalmente risposto a due cittadini sul sito del Quirinale per spiegare quella firma al limite, la stragrande maggioranza dei costituzionalisti spiega che il decreto interpretativo è incostituzionale, la probabilità che le elezioni si debbano rifare per intervento della Corte è alta, la Regione Lazio (adesso del centro-sinistra) ha già presentato ricorso, i sondaggi dicono che Berlusconi ha perso in questo passaggio quattro punti almeno, si prepara la resa dei conti tra lui e Fini, il Pdl sembra destinato a sgretolarsi, clima da diluvio universale, intanto la crisi economica avanza, eccetera eccetera eccetera. [Giorgio Dell’Arti]