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 2025  dicembre 30 Martedì calendario

Giovani, fuga all’estero senza ritorno. Solo tre su dieci rientrerebbero in Italia

L’Italia si svuota di giovani. Non riesce a farli tornare. E la legge di bilancio 2026 non cambierà le cose. Nessuna misura decisiva, per esempio, per aumentare i salari, uno dei motivi che ha spinto Mario, 38 anni, a rifiutare un posto in Italia dopo 10 anni nel Regno Unito e tanta voglia di rientrare a casa. «Qui è normale trovare un impiego a tempo indeterminato – racconta – con malattia, maternità, ferie, pensione, possibilità di avere un mutuo: in Italia non era assolutamente possibile. Se sei un veterinario come me devi per forza essere libero professionista, con tutti i rischi». Ha 38 anni, un dottorato e un diploma europeo. È arrivato nel Sud di Londra dopo gli studi in Italia perché nel nostro Paese trovava solo incarichi con partita iva, zero tutele e un salario basso, come quelli con cui lavora la maggior parte dei suoi colleghi. «Ho provato a rientrare – racconta -, ho vinto un concorso pubblico ma avrei dovuto lasciare un contratto a tempo indeterminato con una ral sopra gli 80mila euro per un incarico di 3 anni e una ral di 36mila euro, quello che qui guadagna un neolaureato».
Agnese Peruzzi, ingegnere biomedico e dottoressa di ricerca, invece vive a Lione da 7 anni. È arrivata lì dopo essersi formata in Italia, negli Stati Uniti, in Israele. Un curriculum per cui l’hanno assunta immediatamente in Francia, dove l’ha raggiunta, dall’Italia, il compagno, con cui nel frattempo ha avuto due bimbi. «Le tutele non sono straordinarie qui, ma lo stipendio è adeguato e i servizi ci sono – racconta -. Vorremmo tornare per stare vicini ai nostri genitori ma dovremmo accettare condizioni professionali diverse, sarebbe un salto nel vuoto». Guida un team che si occupa di trial clinici, il suo salario è raddoppiato da quando l’hanno assunta. «Qui è considerato giusto che una persona di 25 anni specializzata prenda 38 mila euro all’anno».
Ma chi parte oggi non è solo il ricercatore plurilaureato: secondo l’ultimo Rapporto Italiani nel mondo della fondazione Migrantes, nel 2024 solo il 31,8% degli espatriati è laureato o dottore di ricerca. Il 36,1% ha un diploma, il 31,1% la licenza media. «Vanno via soprattutto i giovani fra i 18 e i 34 anni – spiega Delfina Licata, curatrice del Rim –. Rappresentano la metà delle partenze, il 23% appartiene alla fascia tra i 35 e i 49 anni». A spingere a fare i bagagli non è la ricerca di un lavoro qualunque. «I ragazzi cercano un’occupazione che rispecchi la loro preparazione, che li faccia crescere, anche attraverso una retribuzione che dia valore al lavoro svolto». La fragilità che spinge a partire, spiega, è «la mancanza di quell’ascensore sociale che una volta caratterizzava la vita degli italiani». Chi vorrebbe rientrare si scontra con un Paese che non valorizza chi ha fatto un percorso all’estero. «Si pensa che chi parte sia la stessa persona quando ritorna, ma così non è – spiega Licata -. Chi ha avuto un percorso migratorio ne esce arricchito». Il divario retributivo rende il ritorno una scelta economicamente insostenibile. Secondo le stime di Moving2Italy i redditi medi di chi rientra in Italia sono tra 3,6 e 5,2 volte superiori alle medie italiane. Un lavoratore dipendente impatriato all’estero guadagnava in media 86.293 euro contro i 23.820 della media italiana. Fuori, a un anno dalla laurea gli expat percepiscono in media 2.174 euro al mese netti, il 56,1% in più di chi è rimasto in Italia. Cinque anni dopo 2.710 euro (+58,7%).
L’Italia ha provato a trovare una soluzione con gli incentivi per il rientro in Italia di docenti e ricercatori residenti all’estero. Questo regime offre una tassazione agevolata a chi trasferisce la residenza fiscale in Italia per insegnare o fare ricerca all’università. Si rivolge a chi ha un titolo universitario, ha vissuto all’estero svolgendo attività di ricerca o docenza, per almeno 2 anni continuativi, in centri di ricerca o università e torna per lavorare qui. E funziona, come spiega Elbano De Nuccio, professore universitario e presidente del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili: «pagare imposte solo sul 10% del reddito guadagnato – dice – è un fattore attrattivo significativo». Secondo questo regime, i redditi da lavoro dipendente o autonomo prodotti in Italia per lo svolgimento dell’attività di docenza e ricerca sono tassati solo sul 10% per 6 anni dal trasferimento, e sono esclusi dall’Irap. Con un figlio minore o a carico e tramite l’acquisizione di una casa in Italia, il beneficio si allunga fino a 8 anni e può arrivare a 13 anni con almeno 3 figli minori o a carico. Lo scopo è far rientrare “cervelli” di eccellenza, che spingono la crescita economica e scientifica. «Si punta a far rientrare figure formate, già produttive all’estero, per un ritorno strategico. Funziona e arricchisce le università italiane ma le opportunità per i più giovani rimangono limitate»
L’effetto negativo lo ha visto scorrere sotto i suoi occhi Michele Valentini, cervello rientrato dopo 10 anni all’estero e fondatore del gruppo Controesodo, che conta circa 5 mila iscritti, italiani interessati al rientro a cui probono si offrono indicazioni burocratiche. «Abbiamo notato un crollo dopo il ridimensionamento del regime impatriati – racconta – da inizio 2024 fino a tutto il 2025 le persone rientrate sono state circa la metà rispetto a quelle che tornavano negli anni precedenti». Il vecchio regime permetteva 10 anni di agevolazioni fiscali, ridotte ora a 5 senza possibilità di estensione. Il gruppo ha fatto varie proposte, inclusa quella di concedere agevolazioni a chi investe in nel Paese ma nessuna è passata. «Questo ci conferma l’idea che di fatto all’attuale esecutivo del tema rientro cervelli non interessa». Secondo Almalaurea, tra chi è già partito 7 persone su 10 non hanno intenzione di tornare. Il 38,4% degli occupati all’estero ritiene questo scenario molto improbabile e solo il 15,1% ritiene possibile il rientro.