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 2025  dicembre 30 Martedì calendario

Intervista ad Amedeo Minghi

Sessant’anni di carriera in una notte. Amedeo Minghi si porta avanti – la cifra tonda cadrà nel 2026 – e stasera festeggia all’Auditorium della Conciliazione. Sul piatto, 15 musicisti («Una piccola orchestra», dice) e un repertorio di classici come “1950”, “Vattene amore” e “L’immenso”, con cui il 78enne cantautore romano trovò un primo successo nel 1976. «Ma parlarne oggi è come parlare di un mondo che non esiste più», confessa.
Minghi, lei da che mondo viene?
«Da un’Italia giovane, quella che ho fotografato in “1950”, anno simbolo della ripartenza del Dopoguerra. Sono nato e cresciuto a Prati, quartiere all’epoca popolare, sesto figlio di una famiglia di operai. Avevamo poco, come tutti. Ma immaginavano un futuro migliore».
Della Roma di allora cosa ricorda?
«Era bellissima, al contrario di oggi, che è un enorme garage. Allora ogni città era diversa e viva, ora sono tutte uguali. Lo stesso vale per la cultura: spiegare ai miei che avrei voluto fare il musicista era fantascienza, tuttavia le opportunità c’erano, in una Roma in cui si suonava in ogni scantinato. Erano gli anni Sessanta, facevamo beat. Avrei voluto diventare un direttore d’orchestra, ma per i miei era troppo. E questo fu un ripiego».
La canzone che le ha cambiato la vita?
«Già nel 1966 ero in onda sulla Rai, i miei avevano capito che facevo sul serio. Ma la gavetta fu lunga, complice il servizio militare. Scrissi brani per altri – tra cui “Fijo mio”, con testo di Franco Califano, era la nuova canzone romana – ma “L’immenso” diede la svolta. Pensavo di avercela fatta. Ma la vera affermazione è solo del 1989 con l’album “La vita mia”».
In mezzo, il suo classico: “1950”.
«Ultimo, a Sanremo 1983. C’era anche Vasco Rossi, con “Vita spericolata”. Non ci volevo andare, era una canzone troppo complessa, ma per accordi vari non potevo dire di no. Mi stupisce, semmai, come sia cresciuta: lo scorso anno ha vinto il disco d’oro con “Vattene amore”».
Quella, invece, all’Ariston fu un successo.
«Non ce l’aspettavamo. Per motivi, diciamo, burocratici, Mietta aveva bisogno di una spalla e mi mandarono. Il successo ci travolse, ma fu bello così».
Otto volte in gara a Sanremo. Una nona?
«No, ho dato abbastanza. Il Festival ormai è il figlio di sé stesso: pensato per le radio, non mi ci riconosco. E mi dispiace per i musicisti di oggi, che davanti a sé hanno il baratro: in pochissimi ce la fanno, gli altri sono vittime di un sistema di consumo».
Dei nuovi chi le piace?
«Ultimo, che sa cantare e suonare. E Francesco Gabbani».
I giovani, da lei, vengono?
«Vedesse. Mi scrivono sui social. Per me, hanno voglia di musica sincera, come la mia. Il problema è il solito: mi hanno tagliato fuori da tante radio, per cui è difficile anche solo far sapere cosa faccia oggi».
Si esibirà al Conciliazione, a due passi dal Vaticano. Che rapporto ha con la Fede?
«Sono stato a lungo un uomo di Fede, ora l’ho abbastanza persa. Mi dispiace vedere come la Chiesa abbia contribuito a creare il mondo di guerre di oggi. Non mi rivedo in papi come Francesco o Leone XIV».