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 2025  dicembre 30 Martedì calendario

Intervista ad Anna Galiena

Di Anna Galiena si parla sempre per Il marito della parrucchiera, il film della sua svolta girato da Patrice Leconte (1990), o per le polemiche sulle nudità da sala di montaggio in Senso ’45, il film erotico di Tinto Brass (2002), che lei liquida citando Edith Piaf: «Je ne regrette rien, non rimpiango nulla». In realtà Anna dei miracoli ha una giovinezza ribelle tutta da raccontare, completamente sconosciuta: «Mio padre, quando ero minorenne, mi disse, se te ne vai via di casa, ti mando a prendere dai carabinieri».
E come andò?
«Dovetti aspettare la maggiore età, che all’epoca era fissata a 21 anni. Mio padre, Cesare, amministrava i beni immobili di una compagnia assicurativa, e non era d’accordo su come volevo vivere. Ma era innamorato della letteratura, della storia di Roma e dell’arte in generale. Siamo cinque figli, uno attaccato all’altro. Io sono la più grande. Famiglia romanissima».
Galiena sembra un cognome spagnolo.
«Romanissima, almeno, secondo la ricerca di un parente, fin dal soldato lanzichenecco al soldo di Carlo V che nel 1527 partecipò al sacco di Roma. Siamo del generone romano. A Roma non esisteva la borghesia, o si era aristocratici o del popolo. I miei avi avevano risorse, coltivavano i latifondi della Chiesa».
Diceva che era ribelle.
«Sarei stata tranquilla se avessi intrapreso la strada scelta per me da mio padre».
Lei voleva fare l’attrice.
«A 4 anni salii sul palco per la prima volta, una parrucca castana copriva i miei riccioli biondi. Interpretavo la Madonna nell’asilo delle suore spagnole. A 8 anni, la Rai passò nella mia scuola per il casting di uno sceneggiato, mi ritrovai in un ruolo maschile, il principe Olaf di Danimarca, era una favola. Poi studiavo danza alla scuola dell’Opera di Roma. Papà non si rese conto che, per me, era l’inizio di una grande cosa».
E...
«Mi tolse dopo due anni. Mi impose il liceo Classico. Mi vedeva come futura docente universitaria di Letteratura. Manifestai il disagio andando male a scuola, cominciai a balbettare davanti agli altri, mio fratello mi chiamava Zagaglia che in romanesco vuol dire tartagliare, parlare in modo incerto, confuso».
In classe solidarizzarono o la presero in giro?
«Il mio soprannome era Funerale, ho detto tutto.
Non parlavo con nessuno e leggevo sempre. A me non me ne fregava niente. Avevo mille storie in testa. A casa un litigio dopo l’altro. Papà conservatore, io di sinistra. La prima libertà la conquistai in un viaggio a Londra, il pretesto era imparare l’inglese. Passai due mesi folli. Era il 1968. Tornata a Roma, non ero più a mio agio con tutto quello che mi ruotava intorno. Così a 21 anni me ne andai. Mio padre la prese male, bloccò ogni possibile aiuto economico da altri familiari, e oggi lo ringrazio perché ho dovuto imparare a cavarmela da sola».
Dove andò?
«Da pseudo intellettuali che vivevano in Ciociaria. Uscii di casa con il materassino arrotolato, una padella per cucinare, un sacco pieno di biancheria di ricambio, la mia inseparabile giacca bianca di pelle di pecora e 10 mila lire che avevo messo da parte».
Come fu la convivenza?
«Facevano uso di droghe, non mi corrispondeva, ci rimasi poco».
La corteggiavano?
«Loro no, ma siccome tutti dopo il ’68 si riempivano la bocca di amore libero, fare l’amore mi piaceva. I ragazzi a parole erano liberi, poi protestavano: “Ma non potresti essere solo mia?”. “Ma come – rispondevo – non abbiamo detto amore libero?”. Mi ritrovai con degli amici di Roma in una di quelle case, a San Lorenzo, ancora danneggiate dai bombardamenti della guerra. Zero riscaldamento, zero acqua calda, zero bagno: cesso sul balcone, sistemato con paratìe di legno. Convivevo con cinque maschi. Era una vera e propria Comune. Ma non vestivo da hippy coi fiori tra i capelli. Ero l’unica che lavava le lenzuola di tutti e mi impuntai: d’ora in poi si fanno i turni. Eravamo idealisti e politicizzati. Per campare sviluppavamo sceneggiature di altri».
Ma i suoi genitori non li sentì più?
«Papà mi aveva radiato, manco potevo andare a trovarli».
E la recitazione?
«Seppi che una Cooperativa era in cerca di un’attrice per Antigone, feci il provino e mi presero. Non mi piacevano i tromboni pomposi di teatro, amavo gli attori inglesi o dell’Europa dell’Est. Un’amica partiva per il Canada e la seguii. Avevo 24 anni. Trovai lavoro come animatrice in tv di programmi per gli italiani che vivevano a Toronto: erano 500 mila su una popolazione di due milioni. Si parlava di turismo, quando toccò ai Caraibi, io, siccome mi annoiavo, presi a fantasticare, mi misi a improvvisare. Così ho capito che volevo recitare. Di lì a poco a New York ho conosciuto John. Il grande amore».
Il primo marito.
«L’uomo giusto al momento sbagliato; invece Philippe, il secondo marito, francese, era l’uomo sbagliato al momento giusto. John era aspirante regista ma soprattutto, nella vita, un nichilista di primordine, diceva che era giusto essere disperati perché il mondo faceva schifo».

Ma a New York non entrò nel leggendario Actors Studio?
«In tanti dicono d’averlo frequentato. Io sono l’unico membro a vita italiana, insieme con Francesca De Sapio. Ricordo Robert De Niro che faceva il piacione, Al Pacino, muto e riservato, Dustin Hoffman aveva girato Alfredo Alfredo di Germi e voleva parlare solo dell’Italia. Poi altri giganti, Arthur Penn, Rod Steiger, Elia Kazan, severissimo, se nella sessione non eravamo puntuali chiudeva il teatro a chiave, era fissato che dovevamo sentire lo spazio nel corpo, così ci diceva di camminare all’indietro, arrivati alla sedia dovevamo sederci. Tutti col sedere per terra».
A New York lavorò.
«Cominciai con l’Off off per arrivare ai contratti a Broadway, per ultimo The Chain diretto da Kazan e un cortometraggio della scuola di Scorsese con la troupe grande che sembrava un film di Spielberg... Nell’84 decisi di tornare in Italia. Stavo diventando come gli americani che pensano solo alla carriera e ai soldi e non sanno vivere. Fu uno shock culturale, malgrado avessi trovato un agente geniale, Fausto Ferzetti, fratello di Gabriele, l’attore. Solo che i produttori non guardavano il curriculum ma le gambe. Per una miniserie, Arriva il giudice, seppi che alla Rai commentarono: ma perché abbiamo preso questa, se dietro non ha nessuno che la raccomanda? Il regista Giulio Questi tenne duro. Il cinema d’autore non riuscivo nemmeno a conoscerlo, lavoravo nei film commerciali. Fino a quando per Il marito della parrucchiera, a Parigi, arrivò Leconte, piccolo, peperino, buffo, intelligente».
A un certo punto sparì dai radar.
«Ho avuto meno voglia di apparire, dovevo ritrovarmi, non mi riconoscevo nell’immagine di donna sexy, aggressiva, sicura di sé. Sono sparita dalle affiches, dai fari, ma è altrettanto vero che in quel periodo, nel 2006, al Piccolo e al Franco Parenti di Milano, ho fatto il mio più bello spettacolo di teatro, Quale droga fa per me, con la regia di Andrée Ruth Shammah».
Perché a un certo punto si tolse cinque anni d’età?
«Mi fu suggerito di dirlo. Tutti dicevano che dopo i 40 per una attrice era difficile trovare lavoro. E io il successo l’ho raggiunto proprio a 40 anni. Ne faccio 76 a fine dicembre. E non ho mai lavorato tanto, Emily in Paris, Sempre più sexy che è il film della Andreozzi, le letture di Omero in Sicilia, il teatro per Gabriele Muccino e a Parigi in una versione moderna di Le Troiane».
E il ribellismo?
«A 49 anni andai a fare il Circle of Stones, dall’Inghilterra all’Irlanda, ogni giorno 30 chilometri a piedi, dormendo in pub puzzolenti di fumo e birra».