il Fatto Quotidiano, 29 dicembre 2025
La rinascita dell’Atomo? Pichetto insiste, ma il nucleare ha un problema: costa troppo
Gilberto Pichetto Fratin, in un’altra vita commercialista in Biella, fa il ministro della Sicurezza energetica (ci sarebbe anche l’Ambiente, ma vabbè) e una settimana sì e l’altra pure ci ricorda come solo il nucleare garantirà all’Italia bollette meno care e un avvenire sicuro. L’ha pure scritto nella legge delega che dovrebbe far rinascere l’industria dell’atomo nel Belpaese – nonostante i due referendum (1987 e 2011) in cui gli italiani hanno bocciato il nucleare – grazie ai piccoli reattori modulari (Srm nell’acronimo inglese): per ora ha distribuito qualche milioncino per avere buona stampa, a maggior gloria dei lobbisti dell’atomo, industria assai vivace nel Paese.
C’è il problema che continuano ad accumularsi gli studi che svelano come il nucleare a fissione, nuovo e vecchio, sia una tecnologia costosa, che può vivere solo se abbondantemente sussidiato dallo Stato e dai cittadini in bolletta: l’ultimo prende di mira nientemeno che gli Srm. L’articolo in questione, pubblicato su Progress in Nuclear Energy nel primo numero del 2026 (già disponibile), dei ricercatori Philseo Kim e Allison Macfarlane è titolato Challenges of small modular reactors: A comprehensive exploration of economic and waste uncertainties associated with U.S. small modular reactor designs ed è la prima analisi completa sul cosiddetto “costo livellato dell’elettricità” (Lcoe) e della produzione di scorie nucleari da piccoli reattori modulari progettati negli Stati Uniti. A leggerlo si scopre che le stime sui costi sono assai incerte, ma che è assai probabile che quello degli Smr sia più alto di quanto dichiarato e, peggio, che finirà per produrre elettricità a prezzi maggiori persino rispetto ad altri reattori (più grandi) di terza generazione come i nuovi Ap1000: il costo per megawattora di “NuScale”, il progetto Srm più avanzato e l’unico ad aver avuto una prima autorizzazione di sicurezza negli States, dovrebbe aggirarsi tra 250 e 354 dollari, un’enormità.
In realtà pure l’elettricità prodotta dai due impianti Ap1000 entrati in funzione in Georgia, negli Stati Uniti, nel 2023 non è proprio a buon mercato: secondo la banca d’affari Lazard, che pubblica un report annuale sul costo livellato dell’elettricità (Lcoe), il prezzo oscilla tra 169 e 228 dollari al megawattora. E ancora: come Il Fatto ha già scritto, anche l’ultimo The World Nuclear Industry Status Report 2025, un rapporto indipendente sul settore, stima che il costo livellato per l’energia prodotta da fotovoltaico con grossi impianti è pari a un terzo di quello del nucleare, 4 centesimi di dollaro per kilowattora contro un minimo di 14 centesimi per l’atomo.
Tornando al Report 2025 di banca Lazard, all’inizio vi si legge una frase abbastanza ultimativa: “Su una base costo per megawattora non sussidiato, l’energia rinnovabile resta la forma di generazione più competitiva in termini di costi” e “la più rapida da implementare”. Tra i difetti sottaciuti del nucleare, infatti, ci sono anche i tempi di realizzazione dei progetti, infiniti, che ovviamente si riflettono sui costi: è successo a Hinkley Point C nel Regno Unito, Flamanville in Francia e Olkiluoto in Finlandia.
A fronte di queste difficoltà del nucleare, quella verde è orma una tecnologia matura e vede ormai costi in calo anche per l’accumulo (le batterie), necessario a immagazzinare l’energia e rilasciarla quando la generazione rinnovabile cala o è assente. In soldi, per gli impianti grandi, significa che il fotovoltaico più accumulo produce energia a 50-131 dollari al MWh e l’eolico a 44-123 dollari: cresce persino il gap di prezzo con la generazione da gas a ciclo combinato, tecnologia assai diffuso e tra le più convenienti.
In buona sostanza, le rinnovabili abbassano le bollette, le altre tecnologie no e qualcuna addirittura aumenta i costi. Sarà per questo che, in attesa di dati più recenti, nel 2024 gli investimenti in solare, eolico etc. sono stati oltre venti volte maggiori che nel nucleare, dove peraltro i soldi che girano sono tutti pubblici. La stessa Banca d’Italia, in uno studio di giugno intitolato L’atomo fuggente: analisi di un possibile ritorno al nucleare in Italia e già riportato sul Fatto, ha scritto che vista “la struttura del mercato e della bolletta elettrica, una reintroduzione del nucleare non avrebbe significativi impatti sul livello dei prezzi”.
Eppure il governo Meloni e il suo ministro competente continuano a dire che il nucleare nel medio periodo (o meglio lungo o lunghissimo, visto che la produzione a livello industriale dai piccoli reattori ancora non esiste) sarà conveniente: “L’energia da fonte nucleare avrà un prezzo competitivo – ha ridetto Pichetto Fratin un paio di settimane fa – Per me è possibile che il costo, in futuro, sia inferiore”. Più che un’opinione è una speranza e quella, si sa, è l’ultima a morire.
Serve a poco l’usuale argomento polemico del ministro: “Compriamo almeno 40 terawatt dalla Francia prodotte da fonte nucleare”. Proprio per i costi del nucleare e gli oneri che ha caricato sull’azienda per tenere basse le bollette, il governo francese ha dovuto nazionalizzare Edf per evitare che finisse gambe all’aria e consentirle di proseguire nella costosa manutenzione delle sue (mediamente vecchie) centrali: e questo a non dire che l’Italia, a differenza di Parigi, degli Stati Uniti o della Cina, non ha reattori accesi da quarant’anni, né può fare affidamento sulle economie di scala dovute alla presenza di un programma di nucleare militare. Certo, la filiera delle rinnovabili è largamente cinese – anche perché l’Europa continua a non investire per crearne una – ma anche quella al monte del nucleare è straniera: nella filiera dell’uranio, per dire, sono centrali la Russia e Paesi suoi alleati.