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 2025  dicembre 29 Lunedì calendario

Giovani dimenticati

L’Italia perde 16 miliardi di euro all’anno in capitale umano. È la cifra che il Cnel ha stimato per il triennio 2022-2024, il costo dell’emigrazione netta dei giovani connazionali che scelgono l’estero per costruire il proprio futuro. Un esodo che colpisce soprattutto le regioni più produttive: la Lombardia perde oltre tre miliardi, il Veneto 1,6. Di fondo, c’è un Paese che non riesce ad attrarre i propri talenti, né a trattenerli. «C’è una contrapposizione netta tra giovani e anziani nell’ambito del lavoro, a danno dei più giovani», spiega l’economista Mauro Zangola.
Nell’arco di vent’anni gli occupati tra 15 e 49 anni sono diminuiti, mentre i 50-64enni sono più che raddoppiati. In gran parte per via di mancati investimenti. Secondo l’Ocse, nel 2023 l’Italia ha destinato all’istruzione il 3,9% del Pil contro una media europea del 4,7%. La spesa per studente universitario rappresenta il 16% del Pil pro capite italiano, contro il 30% della Germania e il 26% della Francia. In valori assoluti, il nostro Paese investe 8.992 dollari per studente universitario, meno della metà della Germania e il 60% in meno della Francia.
Le elaborazioni di Zangola sui dati Istat mostrano che tra il 2013 e il 2025 gli over 50 hanno visto crescere l’occupazione del 49,8%, mentre i 35-49enni hanno perso 1,4 milioni di posti di lavoro. Negli ultimi tre anni gli occupati 15-24enni sono diminuiti del 9,7%, con un tasso di inattività salito al 78,1%
. «Dal momento che i giovani sono i più penalizzati nella ricerca e nella conservazione del posto di lavoro, è su di loro che bisogna concentrare l’attenzione – dice l’economista -. Oggi sono colpevolmente una risorsa poco e male utilizzata».
Nel 2024 per l’Eurostat il tasso di occupazione giovanile italiano (15-24 anni) è stato al 19,7%, penultimo in Europa, davanti solo alla Grecia. Per la fascia 15-29 anni l’Italia è ultima con il 34,4% contro una media Ue del 49,5%. In Olanda lavora il 79,8% dei giovani, in Germania il 62,9%, in Francia il 48,5%.
«L’Italia non è particolarmente attrattiva per i giovani – dice la segretaria della Uil Ivana Veronese -. E la prossima manovra di bilancio non cambia le cose. Al di là dei contributi per chi apre un’impresa o degli sgravi per chi assume giovani, il tema di fondo è che assumiamo i giovani prevalentemente con contratti a termine, con partite Iva sfruttate, offriamo part-time involontari e non diamo al giovane una chiarezza di carriera». L’unico «grande risultato che abbiamo ottenuto» è la detassazione degli aumenti contrattuali, che vale per tutti i lavoratori dipendenti. «Siccome la detassazione copre un certo importo contrattuale, favorisce tutti i giovani che non hanno stipendi altissimi all’inizio della carriera. All’estero un giovane ha già prospettive definite: gli viene indicata la base salariale e i traguardi raggiungibili negli anni. Qui ciò non accade» dice ancora Veronese.
«Il paradosso è che i giovani italiani con laurea e Master all’estero trovano lavoro qualificato», nota Veronese. Gli esoneri contributivi per le assunzioni under 35 previsti dalla legge di Bilancio, secondo lei, non risolveranno il problema: «rimangono legati alla volontà delle aziende di assumere». Il malfunzionamento è dovuto a un tessuto produttivo fatto per oltre il 90% da piccole imprese senza la mentalità di investire in percorsi di carriera definiti. «Le ragazze sono ancora più penalizzate perché potrebbero avere dei bambini – dice Veronese -. Ma quando si riesce finalmente a entrare stabilmente in un’azienda, dopo molti anni e in età fertile, bisogna ancora scegliere: figli o carriera».
A rendere poco attrattiva l’Italia non è una singola causa ma un mercato del lavoro precario e povero: «Il problema è sistemico – spiega Alessandro Foti, ricercatore al Max Planck Institute e autore del libro “Stai fuori! Come il Belpaese spinge i giovani ad andare via” – Si va sempre a toccare i sintomi del problema e non le cause». Per lui, la prima differenza è legata ai salari troppo bassi rispetto al resto d’Europa, mancano poi sostegno strutturale alle famiglie, dagli asili nido al gender gap, elementi che spingono anche il crollo demografico. «L’errore – dice – è continuare a ragionare sulla politica dei bonus, incluso quello per il rientro dei cervelli: si dovrebbe investire questi soldi in misure di lungo periodo che rendano il sistema attrattivo sia per chi sta fuori sia per chi è dentro».
Secondo il presidente di Inapp Natale Forlani, bisogna agire sulla scarsa coerenza tra percorsi formativi e lavorativi. «Il mancato investimento sull’integrazione tra percorsi formativi e lavoro, le dinamiche dei tirocini extracurricolari e dell’apprendistato che sono al di sotto delle medie europee» hanno generato un sottoutilizzo degli investimenti formativi. A pesare è anche la scelta politica sulle risorse pubbliche: la spesa sociale italiana si è indirizzata massicciamente sui sussidi a reddito, a discapito degli investimenti in sanità, lavoro di cura e istruzione. Settori che in altri Paesi europei hanno generato occupazione qualificata per giovani laureati e donne. Secondo le stime Inapp, negli ultimi 15 anni il mancato turnover della pubblica amministrazione ha comportato un mancato utilizzo di almeno mezzo milione di laureati.
«Da un lato mancano le risorse, dall’altro non c’è programmazione», spiega Davide Clementi, segretario dell’Associazione dottorandi italiani. «Il sistema della ricerca è incapace di accogliere persone da fuori». Secondo l’Osservatorio sul capitale umano, le famiglie italiane spendono in media 2.728 euro all’anno per l’istruzione, con forti differenze territoriali. «Non stiamo disegnando un futuro come paese ai nostri giovani», dice Veronese. E i 16 miliardi che ogni anno prendono la via dell’estero sembrano darle ragione.