la Repubblica, 29 dicembre 2025
Philip Roth e gli Usa: il fantasma esce di scena
Sonnecchia la biblioteca pubblica al 5 di Washington Street. Gli stendardi viola sulla cancellata celebrano i suoi centoventicinque anni. All’ingresso, fermo in un punto imprecisato del passato remoto, troneggia un vecchio torchio tipografico. Sta qui da prima che venisse al mondo uno dei cittadini più illustri e ingombranti: quel Philip Milton Roth (1933-2018) che celebrò a suo modo Newark «anche nei suoi dettagli più banali e meno poetici». E la rese fondale perfino di quel fortunato e cupo Complotto contro l’America in cui immaginava un semidio populista prendere il potere. Un Trump retrodatato? Se Roth ha fatto in tempo a definirlo «un uomo che maneggia un vocabolario di 77 parole», non è riuscito a vederlo riconfermato presidente. Se n’è andato il 22 maggio 2018, sotto il primo mandato di The Donald, immalinconito e senza aver vinto Nobel che meritava. E che forse ne avrebbe rese più visibili e solenni le tracce nel luogo natale.
Ci tornò nel giorno dei suoi ottant’anni. Nelle sale del fondo a lui dedicato è esposta qualche immagine di quella cerimonia.«Stasera» esordì in quell’occasione il vecchio Roth, «non vi seppellirò sotto una valanga di aneddoti relativi alla mia infanzia felice nel quartiere di Weequahic, o alla commozione che suscita in me il ricordo di tutto ciò che riguarda la Newark dei miei tempi». E tuttavia, da gran narratore evocò con pochi e nitidi tratti la scuola di Chancellor Avenue, le squadre di baseball, i libri presi in prestito nella piccola biblioteca di quartiere e caricati nel cestino della bicicletta.
A forza di annunciare ciò di cui non avrebbe parlato, in realtà Roth parlò di tutto: con quella «passione per la specificità», per la «ipnotica materialità del mondo», che – chiarì – è la linfa vitale della narrativa. Il parco! Il vasto e bellissimo parco. In una tarda mattinata assolata, dopo avere fatto colazione in uno stratipico diner, con monumentali pancake di ogni foggia, lo riconosco: animato da chi ciondola nella giornata feriale. E da chi incarna lo smagliante stereotipo del ragazzone americano che gioca a pallacanestro. C’è sempre una partita di basket. C’è sempre un campo da gioco in terra battuta. Come quello su cui eroicamente lancia il giavellotto il protagonista del romanzo del congedo, Nemesi. Ambientato per l’appunto nel quartiere dell’infanzia, in una “Newark equatoriale” segnata da casi di poliomielite nella feroce estate del 1944. La descrizione topografica è dettagliata, strada per strada.
Raggiungo la casa in cui il futuro scrittore trascorse l’infanzia, 81 di Summit Avenue (un cartello, all’incrocio con la Keer, indica una impalpabile Philip Roth Plaza): c’è una targa che indica il sito storico, ma è un villino abitato, con giardino davanti, nella tipica sequenza di villini con giardino.
Sonnacchiosa Newark, conferma lo studioso di letteratura che viaggia con me, Matteo Brera, ricercatore tra l’altro alla Seton Hall, a venti minuti di macchina da qui. «Strade di mattoni, quartieri silenziosi. Tutto risulta lontano anni luce dall’energia di Manhattan» – di cui comunque sfolgora, arrivando da New York, lo skyline. Ma la calma, sostiene Brera, è solo apparente: «Nel 1967 Newark fu teatro di una delle ribellioni urbane più violente degli anni Sessanta». Tensioni razziali, disuguaglianze profonde e brutalità istituzionale esplosero in giorni di scontri che hanno cambiato per sempre il volto e la memoria della città. «Una città che sembra dormire, ma che ha saputo bruciare». Se ne parla in un prequel della serie tv I Soprano, ambientata qui. La cattedrale, gotico posticcio, compare nella sigla.
Nel 1967 Roth è vicino ai trentacinque anni, ha debuttato già da un po’ e appena dato alle stampe Quando lei era buona, sul naufragio del suo matrimonio. Ma sta per arrivare il gran momento di Portnoy: febbraio 1969, tre milioni e mezzo di copie vendute nei primi cinque anni. I parenti e amici di Newark furono investiti dalla fama e dalle polemiche. «Cammini per strada e tutti sanno chi sei, e tu non sai chi sono loro. “Sei il figlio di Bess, vero?”». Mamma Batya detta Bess, un po’ meno soffocante di quella descritta nel Lamento di Portnoy, ritradotto da Matteo Codignola sotto il titolo Portnoy per Adelphi, che ha sottratto Roth al catalogo Einaudi e ora comincia a farlo rivivere. Papà Herman, immortalato in Patrimonio, professione assicuratore. Un mondo piccolo, forse perfino angusto, noioso, ipocrita, monotono, da cui Roth scappò in fretta «per poi passare il resto della vita a pensarci». Senza aspettarsi, dopo i trionfi letterari, chissà quale restituzione e riconoscimento: se sei del New Jersey e scrivi trenta libri – aveva scherzato Roth – «è estremamente improbabile, ma non impossibile, che dopo la tua morte decidano di dare il tuo nome a un’area di servizio». Così da essere ricordato almeno dai bambini a cui scappa la pipì.
Questa è tutta l’immortalità che è realistico sperare. Quel benedetto e meritato Nobel a Roth non fu concesso; e in effetti Newark non sembra più di tanto interessata a celebrare il grande narratore, che pure ha disseminato tracce della geografia delle origini in tutta la sua opera. Il vecchio ghetto cittadino. La Newark delle fabbriche. Il quartiere povero di Weequahic: «L’immersione – scrive in Pastorale americana – è mai stata così completa come lo fu in quelle strade, dove ogni isolato, ogni cortile, ogni casa, ogni piano di ogni casa era stato individuato con tanta esattezza?».
Dove cercare dunque il fantasma di Roth se non nelle involontarie didascalie per un potenziale atlante della città natale? Non è monumentalizzato, e questo è un bene. Il problema potrebbe essere l’ispida natura del suo profilo intellettuale? Ad Harvard, per dire, se ne introduce la figura “contraddittoria” con parecchie cautele.
Fatto è che sono l’unico visitatore, stamattina, dello spazio a lui dedicato nella biblioteca pubblica. Le fotografie di una vita. I libri. Il faldone composto dalla madre con i ritagli che riguardano il figlio. Il tavolo di lavoro alto a cui si accostava in piedi, costretto dal mal di schiena. La macchina da scrivere. Le bozze dei romanzi. La tana dello scrittore. Luminosa, e raggelata. «La morte è infinita per antonomasia, no? Non sei d’accordo?».