Domenicale, 28 dicembre 2025
Come rimasticare la scultura
Intorno al 1910 Max Ernst, allora studente a Bonn, si era imbattuto in piccole sculture di mollica di pane, realizzate dai pazienti di una clinica psichiatrica. Con sorpresa e con grande meraviglia, vi aveva rintracciato «procedimenti» che lo avrebbero orientato in questa «no man’s land». Ernst fu senz’altro pioniere nell’approccio sistematico a quelle forme di espressione artistica spontanea, tipiche dei “folli”, ma anche dei bambini e dei popoli di culture lontane, che nel nuovo clima “primitivista” attiravano l’attenzione delle avanguardie storiche (Cavaliere Azzurro, Dada e Surrealismo, in primis).
All’interno dei manicomi non era certo consentito maneggiare penne o pennelli, potenzialmente contundenti, e neppure oggetti in generale. Con l’eccezione dei pasti a tavola, o delle attività di supporto alla comunità che ad alcuni era consentito svolgere in cucina, dove a non mancare era di solito il pane, cibo primario e piuttosto connotato, direi centrale, in particolare nella cultura culinaria dei Paesi di lingua tedesca.
Se quella dell’utilizzo del pane è stata una scelta poetica per molti artisti in generale, per gli artisti internati ha rappresentato per lungo tempo un’opportunità, piuttosto unica, di trasformarlo in una sorta di creta, capace di dare espressione a quanto Kandinsky chiamava la «necessità interiore». Lo psichiatra della mitica clinica di Heidelberg Hans Prinzhorn (1886-1933), la cui attività fu stroncata dai nazisti nel ’33, fu il primo a cercare di trattare in maniera sistematica il tema, con il suo Bildnerei der Geisteskranken, pubblicato nel 1922. Nello stesso anno, trasferendosi a Parigi, Ernst ne aveva portato una copia a Breton e agli amici Surrealisti. Nel volume, il medico tentò di selezionare tra i suoi pazienti coloro che possedevano un vero e proprio talento artistico (venendo così a ribaltare il connubio genio-follia). Tra le dieci biografie che trattò incluse quella di un unico scultore, Karl Brendel (1871-1925). Ex muratore mutilato, con diagnosi di un numero consistente di disturbi psichici, Brendel utilizzò per anni, quale materia per fare scultura, ingenti quantità di pane da lui masticato e poi sputato. Fino a quando, sotto assistenza naturalmente, non gli fu dischiusa la possibilità di scolpire in legno quelle opere vibranti di una vita tutta propria. In cucina furono attivi artisti-pazienti notevoli, come ad esempio August Forestier (1885-1958), che realizzava giocattoli e animali fantastici per i figli del personale medico, o il brigadiere Francesco Toris (1836-1918) che nell’ospedale di Collegno passò dal pane alle ossa di animali per creare il suo Nuovo Mondo, destinato «a sostituirsi al (mondo) attuale, oramai troppo corrotto e perverso».
«L’arte non dorme nei comodi letti che le sono stati preparati», ammoniva un sommo artista quale Jean Dubuffet. Con i suoi contributi teorici e la sua collezione, giunse a coniare negli anni 40 il termine di Art Brut, conferendo dignità e fama a tante vite malgirate, segnate dall’annullamento e dalla perdita, talvolta abissalmente malinconiche, e tuttavia spinte dall’istinto creatore a comunicare, facendo emergere un talento profondo. Dubuffet fu sempre in contatto con l’ospedale di Gugging, alle porte di Vienna, oggi atelier per artisti e monumentale museo che custodisce quella che si potrebbe definire la “Cappella Sistina” dell’Art Brut, ovvero la stanza decorata da un paziente eclettico: August Walla (1936-2001). I suoi graffiti policromi che ricoprono le pareti, il soffitto, il mobilio di un ambiente dove regna l’horror vacui, includono rappresentazioni di oggetti d’uso quotidiano e di cibo, in particolare pane, panini e Wurstbrot integrati in assemblages che danno vita a simbologie e mondi visionari, ironici, sguaiati.
Niente panettieri professionisti, dunque, per realizzare le opere degli artisti qui brevemente citati, cui ci sentiamo di aggiungere un grande contemporaneo italiano, Umberto Gervasi (1939), in bilico tra il pane e i torroni sin da quando dava vita al suo primo bestiario infantile. Da noi, tra il lavoro pionieristico di Bianca Tosatti e le mostre, i libri e le attività storiche della casa editrice e della Fondazione Mazzotta, i riferimenti per approfondire questo ambito non sono mancati. Mancava però uno spazio espositivo interamente dedicato e permanente, che ora è possibile ammirare sulle sponde del fiume Lambro, a Melegnano. Si tratta del Museo Broggi, nato lo scorso marzo dalla riconversione di una storica fabbrica di posate, il cui cuore è un mulino a cilindri del 1835. Qui il Comune, con Diblu Arte e lo psichiatra e storico Giorgio Bedoni (già curatore di diverse mostre sul tema, insieme con Gabriele Mazzotta), hanno dato vita a un centro dedicato al dialogo tra la cosiddetta Outsider Art e l’arte “ufficiale”, tra storia e contemporaneità. Una fucina fresca e creativa che mette a sistema alte competenze proponendo mostre, pubblicazioni, laboratori e concerti. Nei suoi primi mesi di vita, il Museo Broggi ha saputo danzare lieve sul sottile crinale tra “in” e “out”, tracciando nuovi percorsi e promettendo una mostra molto attesa sul tema delle cartografie e dei mondi visionari, per il 2026.