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 2025  dicembre 28 Domenica calendario

Pane selvaggio, serbatoio onirico

Per cominciare a vedere bisogna addentare il pane alloppiato, quello mischiato a semi di papavero selvatico o addizionato con semi raccolti in ogni dove, perché il paese della fame non ammette altra soluzione ai disperati, ai pezzenti, agli emarginati e in generale alle plebi diseredati.
Il “pane di città” va dritto nelle bocche dei maestri e dei principi, per cui non resta altra soluzione se non quella dei “pani ignobili”, in cui dominano le miscele di cereali inferiori, il più delle volte adulterati dalla cattiva conservazione, sovente mescolati con vegetali e granaglie tossiche che svolgono funzioni di stupefacenti permettendo in tal modo di sognare un altro mondo al di fuori di quello presente, e tuttavia anche questo incerto tra sogno e incubo. Per nulla simile all’Isola dei Beati, questo universo è somigliante a quegli inferni in cui la maggior parte degli esseri umani, uomini e donne, soggiorna mediamente per non più di tre decenni, massimo quattro, tra privazioni, vessazioni e sofferenze degne di quelle descritte nei versi popolari del sommo poeta: lì il regno inferiore risulta almeno riscaldato d’inverno da gran foco che arde sempiterno.
Ai disperati, che sono la maggioranza, non restano da bruciare che legni umidicci, di ben poco calore, dentro camini che risucchiano le temperature disperdendole verso l’alto. Quel paese della fame si estende a non lontana distanza temporale da noi: solo due o tre generazioni passate. In quel territorio dagli ampi confini, pochi o pochissimi avevano accesso al pane pulito, ai più restava piuttosto il “pan dei cani”, come lo chiama nelle prime pagine del suo racconto Piero Camporesi. L’autore attinge da antichi libri per comporre la sua rassegna sconcertante intitolata Il pane selvaggio, viaggio all’ingiù, nell’Ade dei poveri e dei miserrimi, dei poveracci e dei senzacasa, dei buoni a nulla e degli sperduti tutti in cerca d’altra terra in cui, come per miracolo, spuntano piante da cui pendono frutti simili ai pani bianchi privi delle consuete lordure. Trascrivendo da volumoni e da cronache passate lo storico e scrittore elenca le componenti delle pagnotte: fave, erbe, grani quale il loglio o zizzania, oppure chicchi più nobili come sesamo, anice, finocchio, comino. Giulio Cesare Croce racconta nel suo Dialogo fra un Maestro e un garzone sopra un pane alloiato (1617) cosa avveniva a Bologna, Modena, Reggio e in altri territori limitrofi al tempo.
Il maestro di bottega chiede al giovincello perché mai non lavora. Il ragazzo risponde che la testa gli gira a molinello. Per quale ragione? «Or non vedete voi – risponde il garzone – S’io tremo tutto, ch’io sono alloiato?». L’alimentazione perniciosa comprometteva sovente l’equilibrio psichico dei mangiatori, producendo evidenti effetti, così che il paese della fame era anche il paese dei Paradisi artificiali, come spiega Camporesi. La condizione degli affamati, dei mal nutriti e degli alloppiati apriva le porte del sogno, inducendo torpore e rallentamento. La stessa canapa, così consueta nei terreni della Pianura, contribuiva a produrre pani alterati, per cui abituali erano i deliri tossici, oltre a malattie come il “ballo di san Vito”, il tutto con effetti d’istupidimento e ottundimento demenziale. La canapa, oggi scomparsa a causa della razionalizzazione delle coltivazioni nelle campagne della Bassa, era la maggior fonte di effetti allucinogeni e soporiferi, cui dava una sostanziosa mano l’uso di piante selvatiche, droghe che, tra le altre cose, rendevano sopportabili le condizioni disagevoli dei più.
Non di rado si trova traccia nei libri di ricette per produrre narcotici atti a sedare i piccoli di casa, come specificano vari erbari popolari del tempo. Inoltre, è assai probabile che le visioni sataniche e stregonesche tanto perseguitate derivino dagli eccipienti introdotti, così che l’alimento base dell’Europa, il pane, costituiva un involontario serbatoio onirico per le plebi malaticce e sottomesse.
Le stesse presenze di licantropi, di animali misteriosi e diabolici, maghe e lemuri notturni, era probabilmente l’effetto d’una simile alimentazione, dove la carenza di zuccheri appariva elemento endemico.
Era quella, scrive Camporesi, una «vampiresca società d’ossessi, in fuga dal senso tormentoso della brevitas vitae e dalla paura della morte». La fuga nell’estasi artificiale, in mondi alla rovescia e in sogni impossibili proviene, rimarca Camporesi, dal «basso dosaggio vitale» o, al contrario, dagli eccessi alimentari, due opposti che producono in un susseguirsi di alti e bassi.
Nel secolo di Galilei, Bacone, Cartesio, i pani alloppiati rendevano poco comprensibile lo sforzo di chiarezza intrapreso da questi scienziati, così che esistevano in virtù dei due differenti pani alimentari – questa la conclusione di Camporesi – due sistemi culturali opposti, simmetrici e per nulla comunicanti. L’alto e il basso non sono perciò l’invenzione di chi è venuto dopo la scomparsa di quel cibo villano, ma piuttosto una realtà di fatto, durata ancora due secoli, dal Cinquecento all’età del Barocco trionfante e anche dopo. Grazie a Camporesi, con cui possiamo ancora transitare per il perduto paese del “pane selvaggio”.