Domenicale, 28 dicembre 2025
A caccia di uve francesi per la vigna di brusuglio
Lavorare di cesello sulle parole è come scegliere la luna giusta per potare un tralcio secco o l’acqua sufficiente per un ciliegio campestre. Le parole come i ritmi lenti dei campi si alimentano di particolari e passione. E Alessandro Manzoni, che ha limato i Promessi sposi per decenni dandoci la via maestra della nostra lingua, lo sa. È millimetrico nelle parole, sciacquate in Arno, quanto lo è nella sua vigna di Brusuglio e non passa giorno senza controllare i germogli o curare le viti e le uve perché, con Virgilio (Georgiche, II, vv. 467-468), sa che in campagna «at secura quies et nescia fallere vita, / dives opum variarum» (la pace è sicura e la vita, ricca d’un mondo di risorse, non conosce inganni). Dopo il 1810, di ritorno da Parigi, si dedica anima e corpo alla coltivazione delle viti e, «fattore a Brusuglio», inizia un lungo percorso formativo, testimoniato dai tanti saggi ancora presenti nella sua biblioteca di campagna e fatti arrivare dalla Francia. È il Manzoni che non ti aspetti e che esce, scrupoloso e attento viticoltore, dalle pagine di «Il s’est fait vigneron» – Ai tralci di Alessandro Manzoni, curato da Angelo Stella, Jone Riva e Mariella Goffredo per i tipi del Centro nazionale Studi manzoniani (pagg. 60, € 15), che prosegue nella valorizzazione delle carte manzoniane come ha fatto anche con altri preziosi volumi quali Ricette da casa Manzoni (pagg. 104, € 12) o Il Panettone che è di Milano (pagg. 56, € 10).
Nei Promessi sposi, c’è l’oste della Luna Piena ma non viene citato alcun vino in modo specifico; che si tratti di bevande di qualità o meno emerge solo dalla persona che le serve o dal tipo di contenitore: la fiaschetta di don Abbondio e l’ampolla di don Rodrigo. Fa specie questa scelta perché, invece, lo scrittore si è incuriosito e ha fatto della viticoltura la sua quotidianità come la scrittura, ha studiato i manuali dell’epoca, tanto che l’amico Tommaso Grossi in una lettera del 1830 quasi lo canzona: «tu sei quel dotto che sei, che hai logorati gli occhi e lo stomaco, sciupati mesi e danari, fatto arrabbiare parenti e amici, a furia di comperare, di leggere, di meditare, di ruminare, e di digerire trattati e trattati e trattati sulle viti e sui vini». Manzoni poco se ne cale, pensa ai maglioli (altrove chiamati barbatelle) di uccellina, la vite selvatica dai piccoli acini che piace ai passeri, o alla vite pignola o a vitigni francesi, con la speranza di trarne vini italiani, ed è la madre Giulia Beccaria a scrivere all’amica Euphrosine Flanque-Planta, nell’estate del 1831: «Vous saurez qu’il s’est fait vigneron: il souhaite passionnément de planter une couple d’arpens s’il pouvoit en Pineau noir de Bourgogne». Ma è difficile trovare le barbatelle sul mercato italiano e da Parigi chiedono cifre esagerate. Così l’amica riesce a far arrivare a Brusuglio le crossettes (i maglioli, cfr) e Manzoni non sta nella pelle dalla gioia. Così, lo descrive la madre in una lettera datata 1832 per ringraziare Euphrosine della spedizione delle barbatelle: «Alexandre est ravi, reconnoissant dans toute l’entendue du mot. Il dit que ces 32 m[ille] crossettes lui on fait plus de plaisir qu’à Napoleon 32 mile sodats arrivés la vieille d’une bataille».
Esagerava forse Giulia nel paragonare le barbatelle ai soldati di Napoleone ma il figlio Alessandro conosceva bene le uve osellina e pignola della campagna lombarda, i pinot della Sciampagna e della Borgogna, li coltivava restituendoci un’immagine della pianura – Brusuglio si trova fra Milano e Monza – oggi inconsueta: allora, le vigne regnavano sovrane e c’era chi coltivava con saggezza, ricercava all’estero nuove qualità per farle fruttare in Italia. Oltre all’amore per la propria vigna, Manzoni ne aveva in generale per un buon bicchiere di vino se al figlio Pietro, nel luglio 1855, scrive: «Pietro mio, ti prego di mandarmi al più presto 12 bottiglie di Val Pulicella. Ieri si rimase senza vino e oggi n’ho chiesta una bottiglia a Sogni». La cultura enologica dello scrittore è ampia e variegata come dimostrano le schede vitivinicole manzoniane presentate nel libro e già segnalate da Fausto Ghisalberti nel saggio Il Manzoni georgofilo e i suoi appunti inediti sulla nomenclatura botanica (Milano, 1957).
Fra Pineau e Griset Blanc, c’è chi, però, come Meneghino rifiuta i pregiati vini stranieri e nel Brindes per Francesco I (1815), scrive: «Vin nostran, vin di noster campagn, / ma legittem, ma s’cett, ma sinzer, / per el stomegh d’on bon Milanes / ghe va roba del noster paes» (vv. 95-98). Chissà se Manzoni-Columella era d’accordo…