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 2025  dicembre 28 Domenica calendario

Cibo dell’amicizia, patto per «cum panis»

Ci basta semplicemente la memoria onesta di Mario Rigoni Stern: «Cari Compagni, sì, Compagni, perché è un nome bello e antico che non dobbiamo lasciare in disuso; deriva dal latino “cum panis” che accomuna coloro che mangiano lo stesso pane. Coloro che lo fanno condividono anche l’esistenza con tutto quello che comporta: gioia, lavoro, lotta e anche sofferenze. È molto più bello “Compagni” che “Camerata” come si nominano coloro che frequentano stesso luogo per dormire, e anche di “Commilitone” che sono i compagni d’arme. Ecco, noi della Resistenza siamo Compagni perché abbiamo sì diviso il pane quando si aveva fame ma anche, insieme, vissuto il pane della libertà che è il più difficile da conquistare e mantenere» (lettera inviata all’Anpi di Treviso, 20 gennaio 2007).
Il pane dell’esistenza e dell’amicizia: Achille e Patroclo, Eurialo e Niso, Gargantua e Pantagruel; il pane del viaggio, umano e divino: da quando la fractio panis ha individuato l’Eucarestia, quel pane è divenuto simbolo dell’avventura umana: «Ecce panis angelorum / factus cibus viatorum» («ecco il pane degli Angeli, fatto cibo dei viandanti»: san Tommaso d’Aquino, sequenza Lauda Sion Salvatorem).
Lo sperimentarono i viandanti di Emmaus, quando tutto sembrava finito: «Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. / Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. / (…) / Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane» (Luca 24,30-31 e 35).
Il pane suggella il patto, rende compagni per sempre; accresce la solidarietà: si diventa compagnons [latino: socius, aggiunge il Vocabolario della Crusca del 1724, per segnalare una vicinanza che si è fatta società e condivisione]. E questo convivere può divenire, per unità di intenti, compagnonnage, consorzio di mestieri, trasmissione di un sapere che nasce a bottega, “corporazione” che custodisce gelosamente pratiche e destini.
L’Ottocento conosce la più alta fioritura (e insieme divaricazione) di questa coscienza comune: da un lato il viaggio, di borgo in borgo, di un compagnonnage di Vecchi Credenti, che sono pittori e imbianchini itineranti, riuniti sotto la pia protezione di un’icona; è l’Angelo suggellato di Nikolaj Seminovič Leskov (1831-1895), uno dei più delicati e incantati romanzi del XIX secolo. Dall’altro, la nascita della coscienza di classe dei compagni operai, quali voleva far emergere e imporre Karl Marx, il quale usa nel suo Manifest der Kommunistischen Partei (febbraio 1848) il termine «Gesell» che copre tutta l’area semantica che va da apprendista, a garzone, da operaio specializzato a compagno (colui che appartiene a una stessa Gesellschaft).
Naturalmente non c’è pane di compagno senza il «companatico» che lo insapora; e qui – sin dai tempi antichi – la solidarietà scricchiola, come racconta un acuto apologo classico, I quattro libri di Senofonte “Dei detti memorabili di Socrate” (traduzione di Giacomelli, note di A. Verri): «Di quelli che convenivano insieme a cena alcuni portando poco companatico, altri portandone assai, ordinò Socrate al servitore che il poco companatico o lo mettessero in comune, o lo distribuissero dando a ciascuno la parte sua. Quelli pertanto che ne portavano assai, si vergognavano di non prendere in comune con gli altri quel che era messo in tavola in comune e non mettere dal canto loro in tavola il proprio. Misero dunque in comune ciascuno il suo, e perché così non avevano niente di più di quegli che ne portavan poco, desisterono dal comprar companatici di spesa. Avvedutosi che uno di quegli che cenavano insieme, lasciava di mangiare il pane, e mangiava il companatico solo, essendosi introdotto il discorso de’ nomi, e per qual ragione ciascun nome fosse imposto: “amici, disse, possiamo noi dire perché mai un nomo si chiami opsofago? Imperocché tutti mangiano col pane il companatico, quando questo ci sia. Ma io credo che non per questo si chiamino opsofagi». (…) E un altro de’ presenti disse: “ed uno che con poco pane mangiasse gran companatico? – “Mi pare, disse Socrate, questo doversi giustamente chiamare opsofago”» (Libro III, capo XIV: Parla del mangiare il companatico a tavola).
Nel tempo presente il companatico è divenuto, per i più, così sottile da essere trasparente, come le frittate della povera famigliola del Belli: «Quarche vvorta se famo una frittata, / Che ssi la metti ar lume, sce se specchia / Come fussi a ttraverzo d’un’orecchia: / Quattro nosce, e la scéna è tterminata» (La bbona famijja), mentre crescono a dismisura gli opsofagi [dal greco: οψο v, companatico, e φαγεῖν, mangiare], coloro che si cibano solo del companatico, specie se altrui.
È sparita, persino dalle osterie di campagna, l’abitudine di far trovare in tavola, per accogliere l’ospite, un piattino di fettine di salame e di pane (in Francia la variante: charcuterie e cornichons) mentre s’attende la prima, o unica, portata; almeno il Vino e pane di Silone o il Pane e vino di José María Sánchez Silva, pur più poveri, mantenevano l’aura del sacro; ora – quando va bene – trovi una ciotola con un po’ d’olio spremuto di fresco e intingi tozzolini di pane. Anche l’accoglienza si stinge: e neppure puoi ambire alla fettunta, perché – per via dell’aglio – è disdicevole tra commensali. Se poi si volessero accanto i cannellini o il cavolo nero, allora si salta nella seletta e salata “dispensa del fattore”...
Ecco, manca lo schietto, franco, diretto, come una stretta di mano; quel ruvido che sa di terra e che permetterebbe di avere in non cale la schizzinosa bulimia degli opsofagi e il fervore della loro esclusività. (Il fatto è che mancano pure i compagni e il companatico, e s’allungano solo le magre ombre della solitudine).