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 2025  dicembre 28 Domenica calendario

Pane: le sue origini nelle sponde mediterranee

Aveva ragione Ippocrate: «Il pane appartiene alla mitologia». Lo scriveva consigliando, soprattutto in estate, diete che oggi chiameremmo mediterranee, a base di un buon pane d’orzo: la maza, ma anche del synkomistos, di farina integrale non setacciata, o di ipnitai, semplici panini cotti, però, in uno speciale forno all’aperto. Già al suo tempo, dunque, il pane si declinava al plurale: diverso per forme, per composizione della farina, per modi di cottura. Come oggi, insomma, e lo sappiamo bene noi italiani che alla rigida, cartesiana egemonia della baguette in Francia, contrapponiamo la varietà infinita e saporosa della michetta, del pane ferrarese, della rosetta, a non parlare della pizza, della piadina o della pinsa. Pare che il primato per la quantità di pani diversi per forme, gusto e nomi vada alla Sardegna e la ragione – così spiegano gli esperti – sta proprio nell’isolamento storico dell’isola che sviluppò l’ingegno e l’immaginazione dei suoi abitanti. E si può facilmente crederlo, se, dice appunto Ippocrate, la storia del pane nel Mediterraneo ha un cuore antico, come la Sardegna.
Le origini della lavorazione del grano si perdono nella notte dei tempi. Ritroviamo le prime tracce intorno al Corno d’Africa, sull’altopiano etiopico da dove la coltivazione dei cereali si spostò poi nello spazio mediterraneo.
Dalle nostre parti, tra Gibilterra e la Mesopotamia, il suo affermarsi è il segnale evidente del passaggio dal nomadismo alla stanzialità, quasi che il pane, con il tempo necessario per coltivarlo e le più o meno laboriose strategie di consumo e di conservazione, sia il vessillo di comunità che si placano nello stare e non nell’andare, che si fermano e fioriscono.
Come le città, altro grande e precoce privilegio del Mediterraneo, anche il pane. Sono, d’altronde, i versi del Gilgamesh, il poema, per eccellenza dell’aurora mediterranea, a raccontarci lo stupore dell’eroe, Enkidu, abituato alla caccia e al sapore della selvaggina alla sua prima esperienza di quel nuovo cibo: «Il montanaro che brucava l’erba e lappava il latte dalle belve feroci, restò sorpreso quando assaggiò per la prima volta il pane». Come è l’Odissea che, nell’antro di Polifemo, ai «mangiatori di pane» riserva il vanto della civiltà, contro i barbari che si cibavano, piuttosto, di carne cruda se non addirittura umana.
Non può, dunque, sorprendere nemmeno che il pane sia il fondamento delle religioni del libro, le grandi religioni monoteiste tentate perfino dall’unione mistica di esso con il corpo della divinità, quasi che in questa alleanza si mantenga vivo il ricordo della ancestrale devozione che i popoli di questo mare portano all’antico nutrimento capace di sostenere l’esistenza materiale, ma anche quella dello spirito.
Il pane, in un mondo di fedi spesso contrapposte, unisce. Davanti alle botteghe dei fornai arabi di Cordoba, famosi nel Medioevo per la bontà di ciò che offrivano sui loro banchi, si affollavano ogni mattina ebrei e cristiani. Nelle bisacce dei beduini si trasportavano pagnotte che avrebbero reso felice Gerusalemme, e le farine che venivano dalla lontana e oscura Colchide, il Mar Nero, facevano la gioia di Atene, troppo piccola e troppo popolosa per poter sopravvivere solo con il frutto dei campi intorno alla città.
Perché il pane, anche se lo si vuole assumere a simbolo della stabilità della dimora e della tranquillità dell’anima, viaggia. Anzi, si potrebbe dire che la sua geografia è la sua storia, perché ovunque e in qualunque modo lo consumiamo, esso nasconde un seme dall’origine lontana, come il pan di Spagna, che non parla solo di farciture di dolci prelibati, ma racconta, piuttosto, il lungo cammino degli ebrei espulsi dalla penisola iberica all’indomani della Reconquista dei sovrani cattolici e dei loro pani, portati con sé nella diaspora e pronti a ricompensare i palati di Bosniaci, Ungheresi, Greci di Costantinopoli e Turchi di Istanbul.
Dalla tradizione ebraica dei “pani della proposta”, esposti tutti insieme sul tavolo del Tempio, discende, del resto, la “fractio panis”, il pane spezzato dal profondo e sconvolgente significato liturgico, ma anche dal sommesso significato quotidiano: l’accoglienza del viandante o del bisognoso e la condivisione con esso del cibo che non manca (o non dovrebbe mai mancare) in ogni casa.
Nell’infuriare della Prima guerra mondiale Charles Péguy provò ad annotare, quasi fosse il legato della sua morte imminente: «Colui a cui manca il pane quotidiano perde anche il senso di quello eterno». Pane e lavoro: il sinolo di tutte le battaglie che chiedono il pane non come carità, ma come ricompensa dovuta alla fatica compiuta fa irrompere in questa storia più volte millenaria le tumultuose stagioni del XIX e del XX secolo e con essa di altri non meno dolorosi viaggi o per meglio dire, migrazioni.
È da dove manca il pane che si è costretti a partire. Sia essa l’America oltre l’oceano, l’Europa oltre le montagne, l’Occidente, oltre un Mediterraneo diventato oggi, anche per quel grano che è fondamento della sua civiltà, frontiera e non passaggio.