Domenicale, 28 dicembre 2025
Vogliamo il vero pane, che sa di primavera
In Italia il pane si fa sempre più raro. Interi capoluoghi di provincia – non li cito per pura carità di patria – ne sono completamente privi.
Forse la produzione granaria è venuta meno? No, gli agricoltori coltivano il grano come prima. Forse i molini sono in sciopero? No, i molini lavorano regolarmente.
Forse i fornai hanno disimparato il mestiere? No, i fornai ci sanno fare come sempre.
E allora? Allora è difficile trovare del pane perché alla gente il pane non piace più, la gente non lo chiede, non lo compera, non ne sente il minimo bisogno. Quindi i fornai hanno smesso di farne.
E del grano che cosa fanno? Lo buttano in mare o lo danno come mangime ai porci? No. Col grano si ottengono dei prodotti commestibili che col pane non hanno niente a che fare; appunto quelli che la gente chiede. E per «gente» qui si intende la gran massa del pubblico, una maggioranza che di giorno in giorno si fa sempre più schiacciante. E per pane – a scanso di equivoci – si intende il pane, quella certa cosa cioè che ha l’aspetto di pane (con una crosta secca e croccante, un bel colore brunito che nelle protuberanze tende al bruciaticcio, qualche ferita sbocciata come un minuscolo cratere e teneramente pietrificata dal calore del forno, uno spolverio, sopra, di farina bianca, una faccia insomma onesta, schietta, paesana, di cui ci si può fidare), quella certa cosa inoltre che ha l’odore del pane e che ha il sapore del pane, odore e sapore che sono fra le cose più buone sulla terra.
Ebbene, di questa cosa meravigliosa che è il pane, la maggioranza degli Italiani non vuole più sapere. E perché questo scandaloso fenomeno non dia nell’occhio hanno trasferito la denominazione «pane» a certi succedanei che del pane non hanno – ripetiamo – niente a che fare e lo ricordano solo vagamente nella forma. C’è tuttavia una piccola minoranza – io e pochi altri – che se non ha vero pane a tavola ha l’impressione di non mangiare anche se in cucina ha lavorato un «cordon bleu»; e dell’attuale generazione è indignata; e qui pubblicamente protesta.
Chiediamo pane, e ci portano dei pallidi, esangui, cadaverici cosi, mollicci e sfilacciosi per giunta, che non mandano nessun odore e non sanno di niente. Ora sia ben chiaro che di michette all’olio, cornetti al burro, rosette al latte, pani «carré», «toasts», «crec», pizze, «brioches» e simili non sappiamo assolutamente che farcene. Portateci del pane e non queste schifenze; del pane, il cui solo odore evochi sterminati campi di spighe fluttuanti al vento della sera, silenzio di misteriosi granai, scricchiolio di passi sulla neve alle prime luci dell’alba in un paesetto di montagna, giovani donne ridenti al davanzale, primavera in una mattina di sole. (...)
Erano anni che lo tenevo d’occhio, il pane. Osservavo come, senza dar nell’occhio, andava assumendo atteggiamenti frivolie mondani, a poco a poco cercava di raffinarsi, di sembrare aristocratico, di schiarirsi la carnagione, di deodorarsi, di parlare con l’erre. Si sa che in molti ambienti snob mangiare molto pane è considerato cosa volgarissima; ragion per cui a pranzo ogni commensale trova al suo posto una microscopica michetta al burro, o un biscottino, e a chiedere il bis si rischia di perdere la faccia. Di ciò il pane si vergognava, anziché reagire col disprezzo.
Quindi cercò di evolversi, rinnegando le proprie sane origini, di farsi il sangue blu, di assumere vesti e pose effeminate, degne credeva – della «haute». L’imbecille.
Come certi montanari i quali fin che restano fra i monti, vestiti da montagna, sono dei tipi affascinanti, ma se scendono in città e si mettono a fare i cittadini, automaticamente diventano dei fessi qualunque senza più il minimo interesse. D’altra parte, si può fargliene una colpa? Era il pubblico che lo desiderava così. Lui non poteva che obbedire. E adesso guardatelo in che vergognoso stato si è ridotto, smorto, esangue, insulso, completamente svirilizzato.
Qui a Milano, grazie a Dio, la situazione non è ancora disperata. Sempre più rari, ma esistono ancora dei fornai che fanno onore alle sante tradizioni. Con fatica, ma se ne possono trovare. Milano però è una delle ultime roccaforti superstiti del pane che si può chiamare pane. Il pane, mi sembra, è una cosa importantissima e oltremodo sintomatica di un Paese. Ma innumerevoli altri esempi si potrebbero citare, dello stesso genere: esempi di decadenza complessiva, i quali dimostrano come il gusto si vada deteriorando, come si anteponga l’apparenza alla sostanza, la modernità presuntuosa alla dignità dell’antico, il pennacchio alla discrezione, lo strepito al silenzio,la mistificazione al genuino, il neon alla lucerna, la piastra elettrificata al fuoco di legna, il fumo all’arrosto, la retorica alla semplicità.
Ecco la definizione esatta: il pane di oggi è infettato di retorica. Mangiandolo, chissà, la gente si illude di distinguersi,elevarsi, emanciparsi, di fare un passettino avanti nella scala sociale. Forse si pensa che solo i «chifel» al burro, le rosettine all’olio, le fascinette al latte siano cibo da signori. Mentre è vero esattamente il contrario. A tavola, il vero signore amerà sempre le cose autentiche, sane, senza camuffamenti e dorature.
E diciamolo dunque finalmente: il cosiddetto pane di moda è una classica espressione di cafonismo, uno dei tanti malinconici fenomeni di volgarità che si vedono quotidianamente in giro.