Robinson, 28 dicembre 2025
Intervista a Enrico Crippa
Anche portare i baffi richiede una qualche forma di disciplina. Quelli sottili e a manubrio di Enrico Crippa sono curati come le sue erbe nell’orto e i piatti che crea nella cucina tre stelle Michelin del ristorante Piazza Duomo ad Alba. A me ricordano vagamente quelli di Ratatouille, il topo del celebre film omonimo che si rivela un genio della gastronomia. Per Crippa invece quei baffi sono un nascosto omaggio a uno dei grandissimi chef del XIX secolo, Auguste Escoffier: «Aveva più di trenta modi per impiattare il foie gras e una cinquantina per cucinare il fagiano. A tanta versatilità e ricchezza di soluzioni univa la semplicità. Era un binomio unico che affascinava Gualtiero Marchesi. Considero Gualtiero il mio maestro, è stato il primo cuoco a fregiarsi delle tre stelle».
Anche tu sei famoso per le tre stelle, eppure non ti si vede mai in televisione dove vanno invece molti tuoi colleghi.
«Non amo la tv, o meglio non amo apparire in tv. Credo che il mio lavoro si giustifichi per quello che faccio, non per ciò che dico».
Non ti attrae neanche “MasterChef”?
«Non ho tempo. Non c’è nessun snobismo ma la cucina richiede un impegno assoluto. O faccio il testimonial, l’attore, il giudice o sto ai fornelli. Non è una questione ideologica o culturale: mi alzo alle sei del mattino e torno a casa a mezzanotte».
Una vita infernale.
«Un inferno in cui credo. Il giorno in cui dovessi perdere questa convinzione direi basta».
Sei sposato?
«Con Silvia. Non abbiamo figli ma lei si prende cura dei bambini come maestra e psicologa».
Quanto è dura la vita dello chef?
«Intanto alla parola “chef” preferisco cuoco. Chef vuol dire solo capo. Sono un cuoco e non lo considero un diminutivo. Quanto alla durezza, non è la stanchezza fisica quella che mi spaventa ma quella mentale».
Come la si gestisce, la stanchezza mentale?
«Con una specie di disciplina del pensiero che metto in pratica attraverso lo stile di lavoro e poi trasmetto ai miei collaboratori».
Alle sei scendi dal letto e che succede?
«Inizia la giornata. Alle sette vado nei nostri orti che sono a qualche chilometro da Alba. Mi rifornisco di erbe e di vegetali vari e con quello che c’è e che trovo all’altezza delle mie aspettative immagino il menu».
Sempre diverso?
«Ovviamente no. Lo sfondo è la selezione dei cibi, l’ordine delle portate e dei sapori. Un cuoco interpreta partendo dalle materie prime e dai colori, cercando il giusto equilibrio fra tradizione e innovazione».
Innovare è anche tradire?
«Preferisco la parola rischiare. Ogni innovazione è un esperimento che può riuscire o fallire».
Spiega questa catena di passaggi.
«Innovare significa che qualcosa che prima non c’era ora c’è. Ma dal momento che niente nasce dal niente ci si accorge che ogni innovazione poggia sull’esistente, ossia sulla tradizione. Bisogna avere un grande rispetto della tradizione per cambiarla».
È un paradosso.
«È l’equilibrio tra ciò che siamo stati e ciò che forse diventeremo. In mezzo c’è la forza del mutamento».
Come nasce un piatto nuovo?
«Non è una cosa che progetti a tavolino. Posso creare, ammesso che questa parola abbia un senso, solo in mezzo alla confusione del lavoro con gli altri. Nello stress e nell’indaffaramento nascono le idee migliori».
Sei famoso per aver applicato le tue idee traendo ispirazione anche dall’arte contemporanea.
«Ho cercato di mettere in pratica una convinzione di Gualtiero Marchesi, ossia che “il bello è anche buono”. Nel tentare di mettere l’arte nel piatto ho richiamato forme e colori di artisti come Kiefer, Clemente, Gaudí».
Non trovi tutto questo un’esasperazione?
«Nell’equilibrio non c’è mai stonatura. La percezione visiva di un piatto è importante ed è qualcosa che ho appreso nel tempo».
Quali sono le tue origini?
«Provengo da una famiglia umile. Le radici sono piantate nella Brianza. Il ricordo degli anni della adolescenza si concentra su un preciso spazio fisico: una fabbrica nella quale i miei lavoravano».
Cosa è stata per te quella fabbrica?
«Tutto il mio mondo di adolescente si è svolto tra quelle mura e negli spazi circostanti. I miei genitori erano custodi di una fabbrica di utensileria meccanica a Viganò e vivevamo lì dentro. Non era un carcere da cui sognare di evadere: per me è stato l’apprendistato. Vedere i miei fare bene il loro lavoro fu istruttivo. Tutto era ricompreso dentro un’organizzazione di tempi e di mansioni».
Intendi dire che quell’imprinting lo hai portato con te anche dopo?
«Quello che tu vedi nella cucina – con i miei assistenti, i miei collaboratori, la mia brigata come si usa dire – è anche frutto di quel mondo remoto».
Perché hai scelto di fare il cuoco?
«Credo sia stata fondamentale la presenza del mio nonno paterno che aveva la passione per la cucina. Da lui andavo in vacanza d’estate. Fuori dal suo lavoro di autista gli piaceva girare per mercati a fare la spesa. Sceglieva e comprava quello che mangiavamo giornalmente. Per me nonno Attilio fu un mito. Mi raccontava gli anni della guerra in Grecia e Albania e, quando cucinava, tutto quello che c’era da sapere sulle ricette che amava. Il suo esempio ha contato molto per le mie scelte future».
Quando lo hai capito?
«Durante il primo stage che feci nel ristorante di Marchesi. Mi resi conto di che cosa fosse un ambiente internazionale. La brigata era composta da gente che veniva da tutto il mondo. Parlavano più lingue e io mi dicevo: voglio diventare come loro, essere bravo come loro».
Provenivi da qualche scuola?
«Avevo fatto due anni di scuola professionale. E poi lavoro: in Francia, in Giappone e ovviamente in Italia».
Di quali anni parliamo?
«Fine anni Ottanta, da quel periodo è uscita forse l’ultima generazione di grandi cuochi».
A chi pensi?
«La figura di riferimento era Gualtiero Marchesi. Ha cambiato radicalmente il modo di intendere la cucina. Sotto di lui è cresciuta la generazione alla quale alludevo: Carlo Cracco, Davide Oldani, Paolo Lopriore, Pietro Leemann, Andrea Berton, Ernst Knam. Un gruppo che ha segnato una grande stagione per la cucina italiana. E pensare che non avevo neppure 15 anni».
Lavori con Marchesi e a un certo punto ti manda in Giappone. Perché?
«Voleva che allargassi i miei orizzonti e prendessi consapevolezza del fatto che ogni cucina, anche la più remota, è il risultato di una storia culturale».
Dove andasti esattamente?
«A Kobe, dove Marchesi insieme a dei soci giapponesi aveva aperto un’attività. Immagina un giovane che finisce in un mondo sconosciuto. Non conosce la lingua né i costumi, non ha amici e ha solo un compito: imparare».
Ti sentivi un alieno?
«Per un momento ho pensato che gli alieni fossero gli altri. Per loro ero solo un “gaijin”, uno che veniva dal mondo di fuori. Però mi piaceva la loro disciplina mentale. Sono maestri in questo».
Come hai fatto ad adattarti?
«È stata dura. A parte il muro della lingua mi esasperava la vaghezza di certe risposte. Capitava che chiedessi: “Ti piace questa salsa?”, se ti piace dici di sì se non ti piace dici no. Mi aspettavo un giudizio franco e diretto, anche perché cucinavo per gente che non conoscevo. Invece parlavano del cielo e delle nuvole».
Come reagivi?
«All’inizio pensavo che mi prendessero in giro, poi ho ritenuto che il loro modo evasivo di non giudicare fosse una forma di gentilezza, infine ho capito che la risposta la devi cercare tra le righe di un discorso. A parte questa loro propensione a nascondere il significato vero delle parole trovavo affascinante la loro attenzione per la forma».
Che cos’è questa attenzione alla forma?
«Un risultato secolare che chiamerei la pulizia del gesto. È uno spettacolo vederli lavorare. Il bello del mestiere che faccio è che quando manipolo una verdura, un pezzo di carne o un pesce so che c’è un modo essenziale e giusto per ottenere la forma che mi prefiggo. Perfino pulire un cespo di insalata richiede grazia, per cui non strappi le foglie ma le sfogli».
E questo ti deriva dall’esperienza giapponese?
«Sì, da un insegnamento che ho fatto mio. Man mano che gli anni passano mi accorgo di essere sempre più esigente nei gesti che faccio quotidianamente. So, per esempio, che il colpo perfetto di pennello di Hokusai in qualche modo corrisponde al colpo di coltello che deve essere altrettanto perfetto. È da malati cronici, me ne rendo conto. Ma è così».
Una perfezione cercata e mai raggiunta.
«Il gioco sta tutto nel valore che riesco a dare all’imperfezione. In essa ritrovo la necessità di evolvermi nel lavoro. In fondo la creatività di cui si parlava è nel segreto stesso dell’imperfezione».
Resti qualche anno in Giappone, poi torni in Italia. Per fare cosa?
«Sono stato ancora un po’ con Marchesi. Poi, grazie a Carlo Cracco, mi arrivò la chiamata di Bruno Ceretto. Incontrai quest’uomo che mi pareva più un visionario che un imprenditore. Mi raccontò il progetto che aveva in mente: realizzare un ristorante che fosse all’altezza delle Langhe, dei prodotti che questa terra produce. Mi raccontò delle sue origini, dei figli, della competizione con i francesi e alla fine di tutto questo mi guardò negli occhi e mi disse: “Ha capito?”. Lo ripeté tre volte».
Cosa capisti?
«Capii che voleva dare vita a un posto di successo, ma giusto, senza che snaturasse il valore antico di quei luoghi. E poi concluse, se ha capito e condivide allora possiamo cominciare».
Quando avete cominciato?
«All’incirca 20 anni fa. Siamo ancora qui, a perpetuare il rito delle tre stelle. La prima stella Michelin risale al 2006, la seconda al 2009 la terza al 2012. Da allora non siamo mai retrocessi».
Come cambia l’impegno tra gestire un ristorante stellato e un posto normale?
«Lo sforzo – che ricomprende passione, dedizione, disciplina – è lo stesso. La differenza è che le tre stelle rischiano di diventare un’ossessione. La verità è che non devi cucinare per chi un giorno in pieno anonimato verrà a giudicarti, ma lo devi fare per tutti coloro ai quali vuoi trasmettere la tua passione e la tua competenza».
E questo vale sempre?
«Per me sì, almeno fino a quando non deciderò di uscire di scena».
Mi sorprende questa tua ultima frase.
«Perché? Dopotutto non siamo destinati a protrarre il nostro ruolo all’infinito».
Magari puoi trasmettere la tua sapienza a coloro che lavorano con te e che verranno dopo di te.
«È anche quello che mi suggerisce Ceretto: bisogna lasciare un’impronta di ciò che si è stati. Va bene, dico io, ma che cosa lascio? Posso insegnare una filosofia, una disciplina, una coerenza. Ma quello che non posso trasmettere è come ragiona la mia testa e le istanze più profonde che la mettono in moto. Siamo stelle, è il caso di dire, che brillano in solitario».
Davvero stai pensando di smettere?
«No, non vorrei essere frainteso. Ma è una possibilità. Quello che svolgo è un lavoro molto duro se lo si fa bene e purtroppo anche quando lo si fa male. E io mi chiedo: avrò la forza e le stesse motivazioni tra cinque o dieci anni? Mi piacerebbe, questo sì, che un eventuale processo di distacco avvenisse prima del declino».
Andarsene all’apice del successo?
«Perché no, alcuni campioni, soprattutto sportivi, lo hanno fatto. Può farlo anche un cuoco».