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 2025  dicembre 28 Domenica calendario

Intervista a Stellan Skarsgård

Tellan Skarsgård, divo massimo svedese la cui fama mondiale è insidiata solo dal figlio Alexander, consegna a 74 anni la sua prova migliore. In Sentimental value di Joachim Trier – film su cinema e memoria, su ciò che resta nei rapporti quando il tempo è passato e le occasioni perdute – è un anziano regista che vuole girare un film sulla propria storia familiare, mentre affronta il rapporto irrisolto con le figlie. Un ritratto tra ironia, fragilità e senso di colpa di un artista brillante quanto inadeguato nel privato. L’uscita del film (il 22 gennaio con Teodora e Lucky Red) è l’occasione per una conversazione larga con l’attore in un albergo francese che guarda il mare. 
Cosa rappresentano per lei questo film e questo personaggio? 
«È la storia di un artista che deve fare i conti con le cicatrici che ha lasciato nelle sue figlie perché non è stato presente nella loro vita. È un regista cinematografico, ama profondamente il suo lavoro ed è probabilmente l’unica cosa che sa fare davvero. I registi sono persone a senso unico, dei nerd. Non puoi aspettarti che siano dei padri moderni, sempre a casa».
Lei invece che padre è? 
«Sono molto diverso. Ho anch’io dei figli, molti (ne ha otto, ndr), ma sono molto più presente di quanto lo sia questo personaggio, Gustav. Dal 1989, quando ho lasciato il Royal Dramatic Theatre, sono a casa otto mesi l’anno e ne lavoro quattro. Soprattutto ho con loro un rapporto diverso. Gustav è più tradizionale, io non ho mai avuto un rapporto “paterno” nel senso classico con i figli, sono più un loro amico. Ma anche io ho fatto errori, il secondogenito ha visto il film e mi ha detto che anche io ero stato via troppo. In qualche modo aveva ragione, magari ero fisicamente lì, ma preso da altro». 
La maggior parte dei suoi figli sono diventati attori. Come ha capito chi aveva talento? 
«È diverso da caso a caso. A volte lo vedi perché non “funzionano” bene all’interno della società. E allora pensi: va bene, devi fare l’artista. L’arte è sempre stata un rifugio per gli emarginati, per chi ha ogni possibile etichetta diagnostica, per gli omosessuali, per chi non si adatta. Questo genere di persone sono sempre finite nelle arti, nel teatro, nella performance. Vedi qualcosa che potrebbe sembrare un handicap e sei felice quando trovano un luogo in cui quel limite diventa una risorsa. I miei figli, credo, sono felici come attori. E sono anche molto bravi». 
Si è mai sentito un emarginato? 
«Sì. A scuola mi sentivo diverso. Avevo interessi diversi, non mi piaceva lo sport, non volevo stare con i ragazzi: preferivo stare con le ragazze. Quando ho iniziato a lavorare come attore da bambino, per la prima volta mi sono sentito rispettato, trattato come un adulto. Condividi storie, esperienze, il piacere di creare qualcosa insieme. E quando provi quella sensazione, non riesci più a farne a meno». 
C’è un prezzo da pagare, no? 
«Certo. Puoi essere scarso, o non avere successo. I miei figli sono stati fortunati: quello è puro caso. È un mestiere difficile». 
La sua filmografia è varia, dal cinema d’autore a Hollywood. Come ha conservato questa libertà? 
«In parte è fortuna, ma in parte è una scelta. Scelgo sempre ruoli diversi per non annoiarmi e non stagnare. Le persone vedono che faccio di tutto e quindi pensano che io possa fare di tutto. C’è una grande differenza tra Le onde del destino e Mamma Mia!». 
Per quali film la fermano? 
«Cambia da Paese a Paese. Lo vedo dalle foto che mi portano da firmare. Moltissime sono di Mamma Mia!, molte di Dune e ora anche di Andor. Oggi ho firmato parecchi autografi su locandine di Nymphomaniac. È difficile tracciare un profilo sociale dei miei fan: sono molto diversi».
Allo scorso Festival di Cannes si è parlato di un nuovo “Dogma”. Lei faceva parte di quel movimento originale con Lars von Trier. Che cos’era davvero quel movimento? 
«Dogma allora era in parte un modo per attirare l’attenzione, “ehi, ci siamo anche noi” – e anche per impedire a Lars di usare gli strumenti tecnici di cui era maestro. I suoi primi film erano precisi, molto costruiti... e noiosi. I suo personaggi erano morti. Con Le onde del destino e le nuove regole, non bloccava più le scene: potevamo muoverci liberi e lui ci seguiva con la camera. Ha scritto il manifesto per ridurre tutto all’essenziale: macchina da presa, attore, testo. Ma Idioti non era davvero un film Dogma, ha barato». 
Girerete ancora insieme? 
«Non lo sappiamo, Lars è ancora in ospedale. Ma lui fa parte della storia del cinema, lo ha influenzato per sempre, senza dubbio. All’epoca le feste della Zentropa a Cannes erano le più selvagge e vive». 
Quali registi l’hanno influenzata? 
«Amo il cinema sociale, ammiro chi ha una immaginazione sfrenata. Von Trier ha avuto un impatto enorme su di me, da Bille August ho imparato la recitazione. Era: “Fanculo le regole, fanculo tutto. Succede qui, tra voi due”. Era maniaco depressivo: quando era giù era un incubo, quando era su dominava il mondo». 
Vive in Europa o in America? 
«In Europa. In Svezia. A Hollywood ci vado solo per lavorare. Ma Hollywood gira molti film a Londra. Dune l’ho fatto in Ungheria. Se Trump bloccherà la libertà artistica avrà problemi. L’arte è comunicazione, non un prodotto che puoi semplicemente imballare». 
Il cinema europeo? 
«È sotto pressione. Non dobbiamo toccare i sussidi, dobbiamo sovvenzionare il cinema o perdiamo la nostra anima. Fare film costa, una parte va in tasse. Se tutto diventa commerciale i produttori penseranno solo ai soldi e ci ritroveremo a fare solo certi show come fa Netflix». 
In “Sentimental value” c’è una battuta sul rapporto tra cinema e piattaforme. 
«Questo è un piccolo film, ma importante perché profondamente cinematografico: girato in pellicola, parla del futuro del cinema. La tv spiega tutto nei dialoghi e nel frattempo puoi cucinare o fare altro. Nel cinema invece, dal Neorealismo a Nouvelle Vague, parlano silenzi e volti, serve attenzione e coinvolgimento. Il cinema pianta i semi dell’empatia». 
Dopo tanti ruoli, cosa cerca oggi come artista? 
«Pace. Ma mi diverto ancora. Stare sul set con attori e artisti strani, creare qualcosa insieme e sorprenderti, anche di te stesso, è meraviglioso». 
Ha girato in luoghi diversi e estremi. L’avventura più grande?
«Abbiamo girato un film norvegese, Zero Kelvin, alle Svalbard, vicino al Polo Nord. Niente navi turistiche, ma orsi polari, crepacci nei ghiacciai. Era di una bellezza sconvolgente e molto pericoloso. Vivere in quel paesaggio è stato come stare in un altro mondo. Non lo dimenticherò mai».