Robinson, 28 dicembre 2025
Intervista a Dan Jurgens
Un mantello rosso lacerato in mezzo alle macerie, con Lois Lane in ginocchio che stringe il corpo senza vita dell’Uomo d’Acciaio sullo sfondo: era il 18 novembre del 1992. La notizia fece il giro del mondo. Superman era morto. Così appariva la copertina del n. 75, l’albo dedicato all’icona che incarnava il sogno americano. La solita trovata? Probabile. Ma numero dopo numero non c’era nessuna resurrezione: Superman era morto per davvero. L’uomo che l’aveva ucciso si chiamava Dan. Dan Jurgens. L’abbiamo incontrato.
Partiamo dall’inizio. Da dove nasce la sua passione per i fumetti?
«Siamo nel 1966-67, io sono un bambino e in tv danno Batman con Adam West. Quella serie è stata la mia porta d’ingresso alla narrativa eroica. Una sera, avrò avuto sette o otto anni, stavo camminando nel mio quartiere e vedo dei ragazzini sul portico con questi piccoli albi a quattro colori: Superman, Spider- Man, Lanterna Verde e – incredibile – anche Batman. E io: “Ma come, è in tv!”. Cercavo di capire il collegamento. Ma da quel momento non li ho più lasciati. Ricordo quella sera con una chiarezza assoluta. Qualche anno dopo ho capito che dietro quei fumetti c’erano persone in carne e ossa. È stato quello a spingermi a provarci».
E poi?
«Mi sono formato come grafico e illustratore al college. Durante l’università lavoravo per un’azienda della difesa, reparto comunicazione: illustravo lo Space Shuttle – siamo nei primissimi anni Ottanta, non aveva ancora volato – e caccia militari. Un giorno Mike Grell, sceneggiatore e disegnatore, fa un’apparizione pubblica nella mia città. Gli mostro il portfolio e lui mi dice: “Dobbiamo far vedere queste tavole a un editor, subito”. Nel giro di due o tre mesi stavo lavorando per la DC Comics. Fine 1981. Sono ancora qui».
Il primo lavoro?
«The Warlord, creato da Mike. Cercavano un nuovo disegnatore per la serie. È partito tutto da lì».
E Superman?
«Prima chiamata: mi propongono di disegnare Superman. Rispondo di no. “Non so disegnare come Curt Swan, e solo Curt Swan può disegnarlo”. Lui era stato il disegnatore storico del personaggio per anni. Poi, credo nel 1988, mi richiamano. Stavolta dico sì. George Pérez avrebbe dovuto scriverlo, ma dopo tre numeri si ritira per sovraccarico di lavoro. Mi dicono: “Tu sei anche sceneggiatore, perché non lo fai tu?”. E così comincio a scrivere e disegnare Superman».
Come nasce l’idea di uccidere l’eroe più iconico del mondo?
«Era un’idea che circolava da tempo, senza mai concretizzarsi. Torna fuori quando ci rendiamo conto di avere un buco: ci mancava una storia per fine 1992. Eravamo un team – quattro testate di Superman – e ci riunivamo ogni nove mesi circa per pianificare l’anno successivo. Io propongo la morte di Superman come elemento drammatico. Nel mio taccuino avevo anche annotato: “Un mostro che distrugge Metropolis”. Due idee separate. Poi Jerry Ordway dice: “Forse dovremmo proprio ucciderlo”. E lì cominciamo a ragionare sul perché. Ci siamo chiesti: cosa possiamo dire di essenziale su questo personaggio attraverso la sua morte? Quando qualcuno a noi caro muore, è allora che davvero ci fermiamo a parlare di chi era. Al funerale le persone si alzano, raccontano storie, dicono come quella vita ha toccato la loro. Ecco, da qui nasce Funeral for a Friend: il funerale di Superman. Come colpisce Lois? I suoi genitori? Il mondo intero senza di lui? Quello era il cuore della storia. Poi ci siamo chiesti: come muore? Come arriviamo a quel punto? E così siamo tornati indietro a ricostruire tutto. È lì che ho creato Doomsday (il mostro che lo uccide, ndr). E poi, quattro diversi Supeman e, naturalmente, quasi un anno dopo, il ritorno: questo dimostra che il processo creativo non è mai lineare: è tre passi avanti, due indietro, uno su, due giù. Ma in questo caso l’idea centrale era chiara: dire qualcosa di importante facendo sparire il personaggio principale».
Ricordo la copertura mediatica pazzesca. Il “New York Times”, tutti gli altri giornali. Ve lo aspettavate?
«No. Eravamo sbalorditi. Certo, immaginavamo un po’ di attenzione, ma che i media di tutto il mondo ne parlassero, quello no. La cosa incredibile è che la domanda che ci ponevamo noi – “Cosa significa Superman per questi personaggi quando non c’è più?” – è diventata la domanda che gli editorialisti si facevano sui giornali: “Che cosa dice dell’America il fatto che Superman sia morto? E del mondo?”. Non avremmo mai immaginato un’eco così».
Chi è Superman per lei?
«Il rappresentante della speranza e della giustizia. Qualcuno che ispira gli altri, che incarna nobiltà e integrità. E chi gli sta intorno? Ecco, lì entra anche il commento sociale».
Il Superman di oggi è diverso da quello classico di fine anni Trenta?
«Sul piano visivo certo, gli stili cambiano, l’arte evolve. Ma ci sono elementi fondamentali che restano: verità, giustizia, speranza erano lì dall’inizio. Nella primissima storia del 1939, Superman afferra un tipo che ha molestato Lois Lane e lo fa penzolare da un palo elettrico. È giustizia in azione. Oggi è più attento, ma quello spirito è intatto».
È cambiato anche il modo in cui percepiamo gli eroi oggi?
«Sì, perché è cambiato come vediamo il mondo. Una volta gli eroi erano unidimensionali. Poi è arrivato l’anti-eroe, soprattutto al cinema. E qualcuno comincia a dire che Superman è “sdolcinato”. Ma non è un commento su Superman: è un commento su di noi. Significa che ci siamo allontanati da quei valori».
C’è ancora spazio per i supereroi?
«Certo. C’è ancora una grande sete di luce, di esempi positivi che non vengano travolti dall’oscurità».
Quali valori questi supereroi offrono alle nuove generazioni?
«Il sacrificio, prima di tutto. Penso alla Seconda guerra mondiale: quei ragazzi americani venivano da tutte le classi sociali, da tutte le razze. Un enorme mescolarsi di persone che compivano un grande sacrificio. Gli eroi sono eroi perché rinunciano a qualcosa di sé per il bene degli altri. È una lezione universale».
Oggi, secondo lei, è più difficile distinguere il bene dal male?
«Sì. Ci sono molte più sfumature di grigio. In passato, in certi casi, era più facile vedere le cose in bianco e nero. Oggi molto è offuscato, nascosto. Sta a noi fendere il rumore dei social media o dei politici disonesti per capire cosa sta succedendo davvero».
Veniamo a Batman e al suo nuovo, monumentale “The First Knight”. Perché tornare al 1939?
«Oggi Batman ha la Batcaverna, la Batmobile, il Bat-aereo, può costruire un razzo e andare nello spazio. Nel film con Jack Nicholson il Joker dice: “Da dove prende tutti questi meravigliosi giocattoli?”. Un eroe così diventa un po’ “troppo”. Nel ’39, quando debutta, non c’è niente, neanche Alfred, il maggiordomo. Solo un uomo con ingegno e astuzia. Ho sempre trovato affascinanti quei primi anni, sono il punto più puro di creazione concettuale. È un anno cruciale: la Grande Depressione, la guerra che incombe, situazioni politiche estreme, ma anche enorme vitalità artistica. Un fondale perfetto per la nascita di un personaggio. Con Mike Perkins abbiamo cercato di restituire quell’atmosfera».
È molto moderno: depressione, povertà, guerre che oggi tornano...
«Sì. Nel 1939 in Germania e nei paesi vicini la popolazione ebraica perdeva tutto: cacciata dalle attività, deportata nei campi. Mentre scrivevamo è successo il 7 ottobre 2023 in Israele. Ci ha fatto capire che il mondo non cambia davvero: c’era un chiaro parallelo».
Su cosa sta lavorando adesso?
«Sul secondo volume: siamo sempre nel 1939, la guerra è iniziata, il mondo cambia in fretta. Il villain stavolta è lo Spaventapasseri. L’abbiamo scelto perché nel 1933 Roosevelt disse: “Non abbiamo nulla da temere se non la paura stessa”. E lui si nutre proprio di paura. C’era molto da esplorare in un mondo sempre più terrorizzato da ciò che stava arrivando».