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 2025  dicembre 28 Domenica calendario

Un altro Natale nelle casette da terremotati

Sulla collina di Camerino c’è il paese fantasma, gli antichi palazzi spopolati avvolti nel silenzio, stretti uno sull’altro come un castello di carte: affascinante e fragilissimo. Da lontano, offuscate dalla nebbia, si vedono le gru, grandi giraffe metalliche che con i loro artigli movimentano il materiale edilizio dei cantieri. Sotto, il campus dell’università e le campagne, le valli del Chienti e del Potenza e intorno la catena dei Monti Sibillini con le cime ormai innevate. Le attività commerciali si sono spostate dal centro storico al Sottocorte Village, però stamattina non c’è movimento, l’unico luogo affollato è l’ufficio postale.
La nuova agorà di questo luogo di spaesati è un’arena allestita con grandi pupazzi della Walt Disney – Topolino al centro decorato con piccole luci, Minnie, sullo sfondo una scritta scintillante: Auguri. Sulla via adiacente si trovano l’orefice, il panificio, il negozio di abbigliamento e quello di bomboniere «La stellina dei desideri» di Lorella Pettinari, che ha una casa nella città fantasma, quella disabitata: «Hanno iniziato adesso, dopo nove anni», dice dietro al bancone questa donna alta e magra, i capelli scuri. «È qualcosa di scandaloso, una parte degli abitanti già molto anziani se ne sono andati, andati che non ritornano più. La lentezza è dovuta alla burocrazia, più di cento decreti, e non c’è mai stato un vero progetto per il centro storico, gli ingeneri attendevano chiarimenti, una norma più precisa, le disponibilità economiche», i soliti nodi, grovigli e garbugli italiani di cui parlava l’ingegnere dei linguaggi Carlo Emilio Gadda. «Adesso ha riaperto il rettorato dell’università, qualche studentato, e poi il palazzo arcivescovile della curia. Sono riusciti a fare i lavori prima degli altri perché forse avranno avuto l’aiuto del Signore – commenta sarcastica —. Alcuni con le case agibili sono tornati ma poi sono andati via di nuovo, è invivibile una città senza servizi».
Dei settemila abitanti di prima, mille sono deceduti o non sono rientrati, si sono trasferiti a Macerata, Civitanova Marche, soprattutto i giovani, la borghesia medio-alta di avvocati, liberi professionisti. Non torneranno più a vivere nel paese dove sono nati.
Nel 2026 saranno dieci anni dal terremoto che ha sconvolto questo pezzo d’Italia centrale tra Lazio, Marche, Umbria e Abruzzo, in particolare sull’asse Amatrice (dal luogo della prima scossa) -Norcia-Visso. Una sequenza sismica provocò circa 41 mila sfollati, 303 morti, 388 feriti.
Delfina Benedetti, una signora bionda sorridente che indossa un lungo cappotto avana, mi spiega nella piccola sede della Pro Loco che quest’anno c’è stata molta partecipazione, soprattutto ai mercatini, al concerto di Natale e a quello gospel con David Gulley e The Cleveland Chorale, quelle che chiama «cose nazionalpopolari»: invece «gli altri anni non è andata bene. Il terremoto ha lasciato angoscia e sofferenza; e subito dopo è arrivato il Covid, stavano tutti dentro le casette, soprattutto i vecchi avevano paura. Anche dopo il Covid, per tanto tempo non s’è visto nessuno in giro».
Adesso, dopo anni di isolamento, molti hanno ritrovato la voglia di uscire, le feste per i bambini sono state molto partecipate. «Ma l’ultimo dell’anno per scelta non organizziamo niente, ognuno starà per conto suo, soltanto il primo capodanno dopo il terremoto c’è stata una grande cena sotto un capannone, abbiamo distribuito più di cinquecento pasti, c’era tutto il paese».
Carlo Croia, titolare del negozio di abbigliamento «Manhattan», vive ancora in una soluzione abitativa di emergenza (Sae) con la famiglia. A causa di un dissesto idrogeologico del terreno dove si trovava la sua casa sta aspettando di costruirne una nuova da un’altra parte. Qui ormai molti pensano che sia inutile lamentarsi, rimpiangere il tempo perduto: non sarà oggi e neanche domani, ma il paese tornerà a vivere. «Stiamo insieme durante le feste, la famiglia di mia moglie è numerosa, sei sorelle, 36 parenti; prima ci trovavamo a casa tutti insieme, adesso nelle casette sarebbe impossibile, anche se ne abbiamo avuta assegnata una grande, 80 metri quadrati, perché siamo cinque; perciò andiamo al ristorante». Secondo sua figlia Michela però, che lavora con lui nel negozio, «è proprio al ristorante che senti di più le mancanze, i vuoti: è bello stare tutti insieme, ma in un luogo intimo».
Per vedere dove vive la gente in questo ulteriore Natale da sfollati, «la Lettura» è andata all’Area Cortine, il paese vero adesso è li, in quelle casette a schiera tutte uguali, abitate da famiglie migrate qui dopo il sisma della notte del 26 ottobre 2016, la seconda e terza scossa della sequenza che devastò il Centro Italia, a partire dalla notte del 24 agosto. Qui a Camerino per fortuna non ci furono morti, ma è la più grande zona rossa del cratere, quella più colpita. Sono trascorsi nove anni e vivono ancora dentro le Sae quasi trecento famiglie. Alcuni anziani non se ne vogliono più andare: «Almeno qui passa un autobus, ci sono i servizi; prima abitavo in una casa di campagna sotto una vallata sperduta, completamente isolata – racconta una signora – adesso è questa la mia casa, meglio restare qui, tanto morirò prima che il paese venga ricostruito». Un’altra anziana vestita di nero è china a raccogliere menta per cucinare i carciofi: «Sei venuto a vedere il deserto dei tartari?», domanda. Anche nel romanzo di Dino Buzzati c’è questa attesa infinita del tenente Giovanni Drogo, arrivato nella fantasmatica Fortezza Bastiani, tutta una vita sprecata ad aspettare l’invasione del nemico dal deserto che non arriverà mai. Le vacanze di fine anno le passa «qui», dice la signora irritata per via dei ritardi nella ricostruzione, il fazzoletto a fasciarle i capelli, bofonchiando che «quest’anno siamo soli io e mio marito, e l’ultima notte dell’anno lo stesso, tanto è tutto un mortorio, ognuno sta a casa sua».
Le rare persone che incontro entrano ed escono dai loro cottage come fantasmi, intorno un’aria di desolazione e un silenzio campale che inqueta, qualche addobbo sui portoni d’ingresso, piccole luminarie, un babbo natale di pezza che scende all’altezza della serratura, i musi dei gatti dietro i vetri della finestra o i cani guardinghi che abbaiano furiosi nei piccoli cortili. Comincia a piovigginare mentre cammino lungo questo villaggio di case di legno dalle porte sprangate – molti abitanti sono al lavoro, altri sono usciti per fare la spesa al supermercato, forse qualcuno sta dormendo accucciato sotto le coperte, pregando o facendo l’amore là dentro. Quando suono a un civico viene ad aprire una ragazza pallida mezza addormentata che mi scruta sospettosa: è romena, non parla italiano. Un signore anziano, Giambattista Accaramboni, un berretto a becco d’oca in testa, sta rientrando con la moglie Nadia: loro passano le feste a casa dei figli. «A Camerino, ma non in una Sae», puntualizza, in un luogo che definisce «quasi normale», perché dopo il sisma le vite di queste persone hanno subito un disorientamento spaziale. «Dopo tanti anni ognuno si è organizzato per conto proprio, molti vanno dai parenti o al ristorante, è difficile rimanere qui per le feste», dice. «Restano quelli molto anziani che non si possono muovere», aggiunge sua moglie, che si regge su una stampella, «qui il tempo passa, da queste parti stiamo invecchiando quasi senza accorgercene». La loro casa nel centro storico è stata demolita, «prima di tre o quattro anni», dice Giambattista, «con i tempi che corrono», afferma prudente, «le ditte che si prendono più del tempo necessario, va molto per le lunghe, sono rassegnato ormai da dieci anni, non immaginavo mai una cosa del genere», conclude.
Al 34 abita Federica Ranchetti, una ragazza allegra e scura di capelli che esce tenendo in braccio il cane. Dice per rassicurarmi che «le casette sono vivibilissime», e comunque «queste feste le passiamo qui in famiglia, d’estate organizziamo insieme le braciolate nel giardinetto, ma d’inverno fa troppo freddo, molti sono anziani. Arriva qualche amico da fuori, faremo un brindisi a mezzanotte». Sperano che sia l’ultimo inverno che passeranno qui, «siamo in procinto di andarcene, stiamo aspettando i tempi biblici della ricostruzione. Voglio essere scaramantica e non parlarne troppo, ma entro un anno dovremmo essere davvero a casa nostra, abbiamo già tutti i mobili accatastati all’ingresso. Me lo auguro, perché sono già tre anni che diciamo che è l’ultimo». Davanti alla sua abitazione c’è un piccolo albero di Natale, così come fuori da altri ingressi, ma le luci sono spente, non c’è aria di festa.
Arrivo nel centro storico di Camerino e parcheggio in piazza Cavour, davanti al palazzo arcivescovile. Camminando per le vie, addentrandomi nei vicoli, incrocio solo palazzi chiusi, portoni incatenati, edifici in sicurezza, altri avvolti dal ferro delle impalcature, dai locali della Cassa di Risparmio stanno portando via i mobili, le scrivanie, le scaffalature. Leggo sulla porta in metallo di un garage una scritta che racchiude la condizione esistenziale di chi viveva qui: «Abbiamo avuto le case, abbiamo perso il paese», perché si possono ricostruire i palazzi, aggiustare gli appartamenti, ma quello che è difficile è ricostruire la comunità, la cosiddetta vita che scorre, quella routine che adesso non c’è più. Incrocio solo vetrine impolverate di negozi chiusi, squadre di muratori, ditte di traslochi, manovali che caricano cumuli di case demolite da riedificare, e intorno il silenzio spettrale dei luoghi disabitati, vie deserte, rarissime automobili; di persone neanche l’ombra, soltanto qualche raro studente che cammina a passo spedito. Un ristoratore ha riaperto perché il locale ha riacquistato l’agibilità: Roberto Frifì – viso ovale e un paio di occhiali da vista dalla montatura nera – è il proprietario del ristorante «Noè errante», un piccolo locale intimo, accogliente e con pochi tavoli in largo Boccati. Dentro alcuni giovani avventori mangiano spaghetti all’amatriciana, due carabinieri in divisa al tavolo aspettano di essere serviti. «Prima c’era anche il tabaccaio, aperto per noia» – mi racconta mentre Monica, la cameriera, serve ai tavoli – un gran fumatore.
È l’unico posto vivo in un paese segnato dalle rovine e dai crolli: «Non percepisco la città fantasma nella realtà perché lavoro sin dalla mattina al bar, questo è un posto vivo, ci sono sempre persone, vengono qui a mangiare gli operai delle ditte appaltatrici, professori dell’università, ma anche turisti». Dice che arrivano a Camerino da ogni parte d’Italia quotidianamente: «Quando vengono mi dicono di non sapere che anche qui ci fosse stato un terremoto, gli esseri umani hanno necessità di dimenticare. Sono tornato con grande gioia perché il Sottocorte Village, come diceva Carmelo Bene, è un non luogo, tutte le attività hanno perso la loro identità, le cose non andavano bene, perché le persone hanno scelto la normalità andando altrove». L’hanno costruito in un quartiere residenziale di villette, secondo lui molti abitanti non l’hanno presa bene. Per l’ultimo dell’anno ha preparato un menu alla carta, «cose semplici del territorio, millefoglie di polenta, carpaccio di manzo affumicato, vincisgrassi, maialino speziato al forno, rollè di faraona».
Prima di andarmene incontro Leonardo Animali, che da anni si interessa di tematiche del settore agroalimentare e delle aree interne e ha scritto un libro che racconta dal di dentro questi paesi, La strategia dell’abbandono (Ventura edizioni). «Non tornavo da prima della pandemia nelle aree colpite dai sismi del 2016, camminare nel centro storico di Camerino trasmette un senso temporale di un infinito presente, senza neanche più la melanconia del passato, né tantomeno di un quantificabile futuro. Incontrare quanti sono rimasti a vivere qui dopo tutti questi anni rende concreta la distanza tra la martellante narrazione mainstream istituzionale e politica sulla ricostruzione, e la vita reale delle persone che stanno vivendo un altro Natale in quelle condizioni».
A sei chilometri da Camerino si trova il piccolo comune di Muccia, settecento anime, dopo il terremoto una sola casa agibile dove è rimasto a vivere un signore anziano. È già il primo pomeriggio quando ci arrivo in pochi minuti. Lungo la strada ci sono ancora i segni sui palazzi transennati, anche qui i lavori vanno a rilento, quelli del centro storico sono fermi, le persone vivono ancora nelle abitazioni d’emergenza vicino al cimitero. Nei lunghi viali con le casette a schiera le auto sono parcheggiate ai lati, i neon delle luminarie con disegni a forma di stelle già accesi. Cammino e scatto qualche fotografia inquadrando nature morte, squarci iperrealistici di oggetti, stendibiancheria, un divano nero abbandonato all’esterno, il giardino arredato con lo scivolo e i giochi per i bambini. Alla fine della terza via, quella che si trova più in alto, vive un ragazzo senegalese, Ndiaye Ousseynou, in una casa dormitorio che raggiunge dopo i turni da operaio in un salumificio: non è l’unico straniero che risiede qui, ci sono anche famiglie di macedoni, di ucraini. Ousseynou è arrivato dal Senegal in cerca di lavoro nel 2007, «in aereo», aggiunge. «Ho trovato un posto dopo una settimana», racconta. A causa del terremoto è stato ospite del parroco, in chiesa, poi si è trasferito qui insieme con suo fratello. Sta bene ma la notte fa molto freddo, c’è umidità alle pareti, lamenta. Pensare che vorrebbero persino tagliare i fondi per le manutenzioni, questo mi hanno riferito. «Sono musulmano, non festeggio il Natale, aspetto mio figlio da Verona e mangeremo insieme, carne di mucca e carne di pecora». Senza brindisi, però: «Per la mia religione è proibito bere alcol, il Corano dice che bisogna essere lucidi durante la preghiera».
Nell’ultima casetta, prima di un bosco, abita Giancarlo Copponi, da anni militante del Partito radicale, organizzatore di Pride, cuoco a È sempre mezzogiorno!, la trasmissione di Rai 1, ma anche autore televisivo (è sua la serie per la Bbc Utopia, quella che definisce un «thriller cospirativo». Ne hanno realizzate solo due puntate, «violento in modo eccezionale» lo descrive divertito e un po’ provocatorio). Capelli bianchi corti e lisci, un viso vissuto da attore drammatico, la sigaretta come compagna fedele, è un grande raccontatore. Una sera in un cinema romano, all’inizio degli anni Settanta, quando era ancora un ragazzo, alla proiezione del Decameron ha conosciuto Pier Paolo Pasolini; nei mesi successivi ha cominciato a frequentarlo. «Mi ha rovinato la vita – dice adesso orgoglioso – la sua visione è diventata la mia. Quando Sergio Citti girò Storie scellerate c’è stato anche il mio zampino, ho avuto sempre la passione per il cinema». Il terremoto? Risponde caustico: «Chi ha i soldi ha costruito, chi non ha i soldi non ha costruito; qui ancora il 70% delle persone vive nelle Sae». Mi spiega che la responsabilità dei ritardi non è sempre delle istituzioni, dipende anche dai terremotati che dovrebbero fare dei consorzi, «è complicato, nel mio condominio due sono morti, gli eredi di un altro proprietario se ne fregano, e io non riesco a presentare il progetto». Lui qui si trova benissimo, ha la cucina attrezzata, il tavolo al centro della stanza, un divano accogliente, appese alle pareti le foto di indigeni ritratti su un’isola peruviana: «Sto da dio, per molti questa è una casa veramente casa, ho i miei dvd con ottomila film, i libri». Gli chiedo come passa le feste uno che fa parte dell’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti: «Non sono credente, penso che sia la festa più ipocrita che esista, ma in questi giorni sarò qui, mi verrà a trovare un amico maestro di sci con la moglie. Faccio cucina popolare, brodo di fagiano, tagliatelle, bistecche di agnello fritte», poi mi mostra le orecchie di maiale, cucinerà anche quelle. «Le metti nella pentola con tutti gli odori, le fai bollire tre ore, poi le trasferisci in uno stampo, ci versi il brodo e lo riponi in frigorifero, quando si crea la gelatina lo tagli a fette!».
Invece l’ultimo dell’anno qui si spara: «Fanno fuochi d’artificio da tutte le parti, allora mi chiudo dentro, vedo un buon film, poi dopo mezzanotte vado a dormire». Dice che ha 77 anni, morirà in questa casetta dove c’è tutto il suo mondo, la postazione del pc, i film, la collezione di tazzine dei locali più eleganti di Roma, dove ha vissuto a lungo. «Qui ho il giardino, il paesaggio, vedo la montagna, perché devo tornare nella mia casa in paese che quando apro la finestra mi trovo un muro davanti?».