Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  dicembre 28 Domenica calendario

La filosofia è andata a sbattere. Così tornano Croce e Gentile

Il pensiero forte e il pensiero debole se le sono date per tanti anni di santa ragione ma dicevano la stessa cosa o, in modi diversi, raggiungevano gli stessi obiettivi. Il pensiero forte, rappresentato al meglio da Emanuele Severino, sosteneva l’idea di una “struttura originaria” sulla quale la volontà umana nelle sue varie versioni capitalismo, marxismo, cristianesimo, tecnologia nulla poteva fare e altro non c’era da fare che attendere gli eventi. Il pensiero debole, rappresentato al meglio da Gianni Vattimo, sosteneva la fine di ogni fondamento metafisico ed ontologico, teoretico ed etico con la conseguenza che non c’era altro da fare che mettersi in ascolto. Con la morte dei loro padri o principali alfieri, il pensiero forte e il pensiero debole ci hanno lasciati e noi non possiamo fare a meno di notare che anche se erano concepiti e proposti come i due famosi secoli di don Lisander, “l’un contro l’altro armati”, erano in realtà tra loro molto affratellati, fino a confondersi e rovesciarsi l’uno nell’altro. Il pensiero forte rivendicando l’esistenza di una “struttura originaria” sulla quale l’uomo nulla poteva fare era, in realtà, il vero pensiero debole. Viceversa, il pensiero debole conducendo tutto al nichilismo in pratica dichiarando la fine di ogni cosa: della storia, della politica, di Dio e riconoscendo all’uomo una libertà pressoché assoluta era, di fatto, il vero pensiero forte. Una cosa del genere ha detto Sergio Givone ricordando Gianni Vattimo sulla rivista Estetica (Il Mulino), numero 3 del 2023: “Se il pensiero debole non è altro che ermeneutica in versione addolcita ed edulcorata, l’ermeneutica è ben più che pensiero debole (...). Mentre il postmoderno liquida la nozione di verità, invece l’ermeneutica la ripropone e la rinsalda”.
Insomma, non è vero che è tutto finito e non è vero che non si possa più parlare della verità. Solitamente per dire che non c’è più la realtà stessa si cita Nietzsche al quale si può far dire tutto e il contrario di tutto e la famosa frase: “Non esistono fatti, ma solo interpretazioni”. Solo che la frase è monca perché era lo stesso filosofo dello Zarathustra che aggiungeva: “Anche questa, però, è un’interpretazione”. Quindi, con la morte di Dio, la fine della Storia, la fine della stessa verità bisogna andarci piano. Lo stesso Givone lo dice con chiarezza: “Se Dio è morto, la verità muore con lui, nel senso che non interessa più a nessuno: questo dice la filosofia del postmoderno. Invece per l’ermeneutica, e per il pensiero debole che non si lascia fagocitare dal postmoderno e pretende di avere ancora qualcosa da dire al di là di esso, il problema filosofico di fondo torna a essere il problema della verità”.
Ciò che si caccia malamente dalla porta, solitamente rientra dalla finestra. Figurarsi, poi, se ad essere cacciato via è nientemeno che quel piccolo problema chiamato verità. È la Storia stessa, quella che ci assale da ogni dove ogni giorno, a riproporre il problema della verità e della connessa libertà. E non è vero che Francis Fukuyama con il suo famosissimo saggio del 1992, La fine della Storia e l’ultimo uomo, decretò la fine della Storia, perché affermò, attenendosi a Hegel, che la Storia era finita in idea, non certo in pratica. Detto terra terra: se l’ideale della libertà si è realizzato con l’Occidente e la democrazia liberale, allora, quale altro ideale si può affermare storicamente se non la stessa libertà che è il più alto e il più dignitoso per l’uomo, che sia l’ultimo o il primo? Il problema della verità è rinato come dovere morale di difendere e alimentare la libertà.

È questa dimensione storica della verità che c’è all’origine della rinascita della filosofia italiana con i nomi dei due maggiori filosofi del ’900 Giovanni Gentile e Benedetto Croce che identificavano dialetticamente filosofia e storia. Non è un caso che sia stato pubblicato solo ora per la prima volta il loro memorabile Carteggio (Aragno): cinque libri in sei tomi. Era già stata pubblicata in passato, ma in modo separato: una parte delle lettere di Croce presso Mondadori e le lettere di Gentile con Le Lettere. Ora, le epistole riunite, il loro dialogo fitto, l’amicizia che respira e si consuma, la Grande guerra, il dopoguerra, Giolitti, la rottura nel 1924, ci restituiscono un’opera unica non in Italia ma in Europa e ci danno il senso del dramma di un tempo che ancora ci parla con tragica serietà, non certo come si strepita di fascismo e antifascismo nell’insipiente dibattito pubblicistico e politico. Son passati cento anni di solitudine e di moltitudini dalla pubblicazione dei loro reciproci Manifesti che, infatti, sono stati riproposti in varie edizioni, ne ricordo una: quella edita da Fuori Scena con le introduzioni di Alessandra Tarquini e Giovanni Scirocco e in quelle posizioni c’è il rapporto tra Stato e coscienza morale, governo e libertà, cultura e politica. Ancora: un testo di Alessandro Campi, Una esecuzione memorabile. Giovanni Gentile. Il fascismo e la memoria della guerra civile è stato aggiornato, ripensato e ripubblicato da Le Lettere dopo oltre vent’anni dalla prima edizione e ha vinto il Premio FiuggiStoria. Mentre le opere di Croce sono uscite da tempo dal cono d’ombra in cui le avevano relegate da un lato il marxismo e dall’altro le scelte della Laterza e si ritrovano un po’ ovunque sia con il marchio Adelphi l’ultimo titolo è Soliloquio sia con l’Edizione nazionale delle opere edita da Bibliopolis, mentre si accresce il numero delle biografie e sulla scia della riscoperta della “vita affettiva” di Croce anche il cinema, con il film-documentario di Pupi Avati, Un Natale a casa Croce, ha fatto la conoscenza della sua vita e del suo pensiero caratterizzato non solo dall’antifascismo ma anche dall’anticomunismo, ossia da quella cultura anti-totalitaria che è assente, purtroppo, in ampi strati della vita politica italiana. Il ritorno di Croce e Gentile nella cultura italiana è fondato proprio da questa causa: rinascono per esigenze della vita civile perché non furono filosofie accademiche come, invece, sono state il pensiero forte e il pensiero debole, pur nella loro validità teoretica. È un problema, questo, che aveva posto qualche anno fa Roberto Esposito con il libro Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana (Einaudi), quando si era reso conto che il carattere della filosofia italiana stava proprio nel suo rapporto non con l’università o la gnoseologia, che è l’ossessione della filosofia moderna, ma con il mondo della vita e della storia. In quel testo si parlava esplicitamente di “ritorno della filosofia italiana” e si consideravano i due giganti Croce e Gentile e i problemi che si agitano ancora nelle loro opere. La storia del pensiero italiano lo notava già, per altro, Luigi Settembrini, figurarsi un po’ non si è fatta nelle università ma nelle carceri, negli esili, suoi roghi: Machiavelli, Bruno, Campanella, Galilei, Giannone, i martiri della Rivoluzione napoletana, e ancora gli Spaventa, i De Sanctis. E così, in fondo, come il pensiero debole non è una liquidazione della metafisica ma una sua decostruzione una sorta di smontaggio e come il pensiero forte non è una svalutazione della libertà umana ma una rivendicazione del valore del pensiero da Parmenide a noi, allo stesso modo il recupero dell’attualità della filosofia italiana non è una sua esaltazione ma una comprensione e liberazione della nostra stessa storia e del contributo che ancora possiamo dare alla custodia della civiltà occidentale ed europea creata da Atene, Roma e Gerusalemme.
Una filosofia che non sia nutrita di problemi civili non è degna di essere vissuta. La virtù della filosofia italiana sta nella sua anima universale proprio perché è radicata nella vita e nella storia dell’anima del mondo a cui apparteniamo.