il Giornale, 28 dicembre 2025
Tra le rime di Firdusi, il poeta che trasformò l’antica Persia in un mondo favoloso
Immaginate di incontrare un libro sterminato, sessantamila versi, un libro che sia, per certi versi, una summa della Divina Commedia, per importanza linguistica, delle Storie di Erodoto, per le conoscenze che veicola, e del Principe di Machiavelli, per quanto è fondante della logica del potere. Ecco per la cultura iraniana esiste un libro così, è lo Shahnameh, Il Libro dei Re, scritto dal poeta Abu ’l-Quasem Ferdowsi (940 – 1020 0 1025 d.C.). Immaginate poi che la prima traduzione integrale di quest’opera, in Occidente, sia stata fatta in Italia, nel pieno dell’Ottocento risorgimentale, epoca in cui il testo, che parla di principi guerrieri e della fondazione di uno Stato, si piegava facilissimamente allo spirito del tempo.
Ecco vi trovate esattamente difronte all’edizione dello Shahnameh che ora viene pubblicata da Luni editrice a cura Simone Cristoforetti, riproponendo proprio la storica traduzione ottocentesca di Italo Pizzi, in endecasillabi sciolti.
Ma andiamo all’origine del poema che più che un singolo libro è un ecosistema di testi e paratesti, dove ogni cosa riposa su una stratificazione di secoli. Ferdowsi, che in italiano dai tempi di Italo Pizzi è traslitterato in Firdusi, nacque nel 940 d.C. nella regione del Khorasan, Iran nord orientale, in un periodo turbolento che seguiva la grandissima espansione islamica che aveva portato alla caduta dell’Impero sasanide. In quella zona di confine il potere del Califfato abbaside era simbolico, svariati potentati si contendevano il dominio. Firdusi apparteneva ad una famiglia di dehquan, ovvero piccola nobiltà terriera, di tradizione zoroastriana (l’antica religione sasanide) ma convertita all’islam sunnita. Dalla famiglia gli arrivarono archivi e leggende avite. La sua condizione, a metà tra la grande nobiltà e la plebe, gli consentì di accedere alla tradizione orale dei gosanan, una sorta di aedi che ancora popolavano i mercati della regione raccontando antichissime leggende. Tutti materiali, compresa una versione in prosa della storia dei re di Persia, che il poeta in età matura inizia a riassemblare, con uno sforzo versificatorio enorme. Seguendo le orme di un altro poeta, Daqui, che aveva tentato la stessa impresa ma era morto senza portarla a termine.
Firdusi, invece, porrà termine al suo ambizioso progetto nell’anno 1010, dopo essere passato da momenti di fortuna, con generosi protettori, a momenti di grande miseria. In seguito Firdusi si recò a Ghazana nel vicino Afghanistan, nutrendo grandi aspettative nella protezione del sultano locale. Ma le cronache parlano di un’accoglienza tiepida da parte del potente signore locale: Mahamud. Nell’opera si respira un profondo sottofondo culturale zoroastriano che probabilmente non risultò gradito alla corte, che era di credo islamico sunnita in modo ortodosso. Firdusi se ne andò offeso dall’offerta di venticinquemila monete d’argento, per limare l’opera fino ai suoi ultimi giorni.
Ma il giudizio che darà la storia è ben diverso da quello dato dal sultano e dai suoi consiglieri.
Il testo finale contiene tre macro sezioni, come spiega con dovizia di particolari nella sua dotta introduzione Simone Cristoforetti. Una prima parte, circa duemila versi, contiene materiali del mito cosmogonico zoroastriano. Una seconda parte molto più ampia – trentamila versi – contiene materiale mitico, misto ad informazioni storiche sugli antichi regni persiani. Una terza parte, i restanti ventottomila versi, è prettamente storica e va dalle guerre tra parti e sasanidi sino alla conquista araba. A questi nuclei Firdusi aggiunge riflessioni morali sulla caducità del potere, pensieri filosofici, elogi dei dotti del suo tempo. Una materia enorme in distici rimanti internamente che per ampiezza e complessità diventerà leggenda. Il testo avrà un successo enorme e duraturo influenzando profondamente la formazione della lingua persiana moderna. Darà vita a numerosissimi codici, spesso meravigliosamente miniati, questo nonostante la scarsa propensione del mondo islamico a riprodurre la figura umana.
Certo un testo eterodosso ma la cui potenza espressiva ha continuato a ritagliarsi uno spazio attraverso i secoli. Di volta in volta grazie a una forza poetica e narrativa che ha fatto sì che anche le autorità religiose chiudessero un occhio, o arrivassero a vedere questa saga zoroastriana come una prefigurazione della svolta sciita. Senza contare il ruolo di Firdusi nell’affermarsi della lingua neo-persiana. Quanto all’Europa, come scrive Cristoforetti: “Nel clima ottocentesco, dominato dalla teoria ariana, dal comparativismo di Jacob Grimm e Franz Bopp e dalla genealogia linguistica delle stirpi indo-europee, lo Shahnameh diviene la pezza di appoggio per una ipotetica fratellanza fra i popoli indo-sassoni”. Nel caso dell’Italia, grazie a Pizzi Firdusi divenne “un alleato simbolico, un poeta che canta la patria perduta, la giustizia tradita e l’eroismo dei singoli contro la sventura”.
Di certo si trattò della prima traduzione integrale in Occidente (pubblicata tra il 1886 e il 1888) di un testo capolavoro che schiude un mondo e che è un mondo. Anche perché gli studi più recenti hanno dimostrato che anche molte delle pagine mitiche sembrano affondare le loro radici in fatti storici su cui possediamo pochissime altre fonti scritte.
Separare la favola, bellissima, dai fatti che l’hanno originata, resta una delle sfide aperte. Firdusi, che significa “il paradisiaco”, oggi riposa sotto un gigantesco mausoleo fatto costruire nel 1935, sotto il regno di Reza Shah Pahlavi. Ma dentro il suo Libro dei re è ancora vivo, poetico e misterioso.