La Stampa, 28 dicembre 2025
Evelina Nazzari: "Papà Amedeo, Pirandello e la depressione Recitava anche quell’unica volta che mi sgridò"
«Con il senno di poi» è l’espressione ricorrente con cui Evelina Nazzari, figlia di Amedeo, attrice di cinema, teatro e tv, accompagna le considerazioni su suo padre, attore venerato, ma anche presto dimenticato, o peggio ancora accantonato mentre era in vita. Cosa che, per chi fa il suo mestiere, è in assoluto la peggiore. Colpa anche probabilmente di quell’adesione alla Repubblica di Salò, condivisa con molti altri colleghi della sua epoca, che a lui comunque non fruttò alcun ingaggio nel vituperato «Cinevillaggio di Venezia»: «Una forma di depressione deve averla avuta – confessa la figlia –, soprattutto nel periodo pre e durante il’68, quando venne preso a simbolo di vecchiume, di roba da buttare. In Italia si fa così, in Francia per esempio è diverso, Jean Gabin è sempre rimasto un mito, anche per quelli della Nouvelle Vague». A rinfrescare la memoria, ricostruendo passo dopo passo l’esistenza tormentata del divo dei telefoni bianchi, dei melò sempreverdi come Catene, di film importanti, diretti da Blasetti e Lattuada, ha appena pensato Roberto Liberatori, autore di una biografia accuratissima (edizioni Sabinae) in cui ricostruisce dolori e glorie, zone oscure e contraddizioni, dell’uomo e dell’attore.
Qual è la prima scena che le balza agli occhi se pensa a suo padre?
«Lo vedo seduto su un certo divano, in una sala da pranzo che veniva aperta d’estate e a Natale, forse perché era riscaldata solo da una vecchia stufa di coccio... E poi in piedi, nel suo angolo, lì accanto, che preparava bruschette sulla brace».
Che tipo di padre è stato Amedeo Nazzari?
«Molto permissivo, molto benevolo. Per fortuna c’era anche mia madre, severissima, gli ordini arrivavano da lei, insomma, si equilibravano».
Fuori dal lavoro, che vita faceva?
«Era molto orso, lontano da qualsiasi tipo di mondanità, in casa si discuteva sempre, mia madre gli diceva che avrebbe dovuto fare pubbliche relazioni e lui non le faceva affatto, non stava in nessuno dei giri che contavano. Gli piaceva frequentare gli amici della domenica, i compagni di liceo, giocare a carte con loro, stare a casa».
Quando e come ha capito che suo padre era una celebrità?
«L’ho capito con un po’ di fastidio, lo stesso che provava lui, quando usciva per fare una passeggiata ed era letteralmente assalito dalla gente. Certe volte, per sfuggire all’assalto, diceva di essere un sosia, oppure di non essere Amedeo, ma solo suo fratello».
Quali sono i film di suo padre che preferisce?
«Detesto i film lacrimevoli di Matarazzo, anche se molte persone lo ricordano proprio per quelli. Adoro invece le commedie brillanti, deliziose, e poi Un giorno nella vita di Blasetti in cui era un capo partigiano, Processo alla città che era una specie di Mani Pulite ante-litteram, ovviamente Le notti di Cabiria, e poi anche Frenesia d’estate, in cui aveva un ruolo umoristico. Mio padre, a dispetto di quello che si crede, era dotato di grande humour, molto british».
La biografia racconta anche gli anni difficili che aveva vissuto, l’infanzia, la guerra, la tristezza latente.
«Nella famiglia di mio padre c’era una vena di follia, aveva due sorelle, le mie zie, che hanno avuto problemi mentali e sono state ricoverate. Lui ha vissuto in collegio, durante la prima guerra mondiale ha patito il freddo, la fame, la solitudine, sua madre andava a trovarlo quando poteva. Insomma, dentro aveva molto dolore, anche se credo che quello più forte sia stato proprio il non aver più ricevuto chiamate di lavoro, in una fase in cui era ancora attivo».
Che cosa, fra i racconti e le memorie di suo padre, le è rimasto più impresso?
«Mio padre era generosissimo, quasi una generosità patologica. Ha guadagnato cifre pazzesche, ha speso per sè, ma anche tanto per gli altri. Durante la guerra ha sfamato tutta la famiglia. Mi raccontava che, poco prima dello scoppio dell’ultima guerra, una volta era andato in un negozio di alimentari sotto casa, nel quartiere Parioli, e praticamente lo aveva svuotato. Comprò di tutto, nascose le cose in una specie di sgabuzzino e così riuscì a sfamare un sacco di gente».
Ha scelto di fare il suo stesso mestiere. Come è andata?
«Non saprei dire se la mia sia stata una vera e propria scelta. Più che altro mi è sempre sembrato un destino scontato, sono cresciuta pensando che quella di recitare fosse una specie di unica possibilità, ci stavo dentro da sempre, sentivo parlare solo e sempre di recitazione... e poi questo è un lavoro che ti irretisce».
Come ha iniziato?
«Benissimo, in teatro con il Cyrano di Maurizio Scaparro, al cinema con Dove vai in vacanza di Sordi, in tv con Anton Giulio Majano che era il re dello sceneggiato tv, accanto a Alida Valli. Insomma, ho avuto un’ubriacatura iniziale, poi, per motivi miei, mi sono fermata e così sono piombata nel dimenticatoio. In seguito ho lavorato di nuovo, insomma un’altalena... ma si sa che le occasioni non dipendono mai dagli attori».
Ha descritto un padre molto dolce, ma davvero non si è mai arrabbiato con lei?
«Da piccola, a scuola, dire le poesie mi riusciva molto bene, era l’unica materia in cui eccellevo. Per il resto non ero granché, l’unica volta in cui ho visto mio padre arrabbiato è stato quando, su richiesta di mia madre, mi sgridò per il mio rendimento scolastico. Ma conservo ancora adesso la sensazione intatta che stesse recitando».
Ha mai ricevuto, da suo padre, consigli di lavoro?
«Quando mi hanno scritturato per il Cyrano, mi disse che la parte di Rossana era molto importante e che, ai suoi tempi, un ruolo così sarebbe andato solo a un’attrice consumata. In effetti avevo 19 anni e pochissima esperienza».
Quali erano le doti principali di suo padre?
«Le riassumo in una parola, professionalità. È un termine che racchiude tutto. Poi, certo, bucava lo schermo, era bravo, a volte molto e a volte meno, per esempio nei film di Matarazzo, che erano dei fumettoni, la sua recitazione diventava molto elementare».
Essere la figlia di un padre così amabile crea problemi, in età adulta, nei rapporti con gli uomini della vita?
«Forse inconsciamente sì. Ho un matrimonio sbagliato alle spalle, ho cercato qualcuno che potesse somigliare a mio padre, e infatti era un uomo che faceva l’attore e aveva 15 anni più di me, ma poi era diametralmente opposto a mio padre dal punto di vista umano, insomma, era paterno, ma in senso negativo. Di sicuro posso dire che sono cresciuta nella bambagia, troppo protetta, e che ho avuto un momento veramente difficile a 19 anni, quando i miei genitori si sono ammalati a due mesi di distanza l’uno dall’altro...».
Suo padre ha fatto in tempo a vederla recitare?
«Sì, stava già male, ma è venuto a vedermi alla Pergola di Firenze, per il debutto, appoggiandosi al bastone. Dopo siamo arrivati all’Argentina di Roma, ma lì non ce l’ha fatta, era in ospedale».
Che cosa le disse alla fine dello spettacolo?
«Mi disse “ho sentito solo te”. Forse era un modo carino per farmi sapere che aveva guardato solo me».
Qual era, fra i ricordi, quello cui suo padre teneva di più?
«Tutti quelli riguardanti il teatro. Soprattutto uno, l’episodio in cui era stato chiamato da Pirandello a sostituire un attore che si era ammalato. Aveva passato tutta la notte con i piedi nella vasca piena di acqua gelida per non addormentarsi e riuscire a imparare la parte. Il giorno dopo andò in scena e, alla fine dello spettacolo, Pirandello gli diede 500 lire dicendogli “lei farà una grande carriera"». —