Corriere della Sera, 28 dicembre 2025
Intervista a Giulio Dalvit
Giulio Dalvit, trentaquattrenne italiano, è il curatore associato di uno dei musei più famosi del mondo, la Frick Collection di Manhattan, nella casa del magnate dell’acciaio Henry Clay Frick, una collezione che include capolavori come il «San Francesco nel deserto» di Giovanni Bellini. Dopo aver curato insieme a due colleghi il trasferimento della collezione a Frick Madison nel Breuer Building (ex Whitney Museum), ha recentemente co-curato l’allestimento della Frick Collection, che ha riaperto l’anno scorso dopo cinque anni di restauri. «Una doppia occasione unica nei primi cinque anni della mia carriera museale». La «nuova» Frick ha aperto al pubblico le camere della famiglia al primo piano, che per 90 anni, da quando il museo fu creato nel 1935, erano state usate per gli uffici.
Lei è laureato in Storia dell’arte moderna alla Statale di Milano, si è trasferito a 21 anni a Londra, dove ha studiato e insegnava storia dell’arte al Courtauld Institute. Non aveva lavorato stabilmente in un museo prima. Com’è arrivato qui?
«Ho iniziato nel marzo 2020, in pieno Covid. Avevo già firmato il contratto ma per quasi due anni non ho avuto letteralmente un luogo dove sostenere il colloquio: consolati e ambasciate erano chiusi, hanno continuato a rimandare. È vero: la mia era stata soprattutto una carriera accademica, pur avendo lavorato con alcuni musei prima. Qui a New York però c’è una cultura che punta a investire sulle persone giovani, affiancandole mentre si avvicinano al mestiere. Il percorso è lungo: fare il curatore significa cose molto diverse a seconda delle diverse istituzioni, farlo alla Frick è diverso che al Met o in Italia, semplicemente perché ogni museo ha esigenze, culture e ecosistemi propri. Una delle grandi differenze tra Italia e Stati Uniti è l’opportunità per i giovani. In Italia l’accesso alla professione del curatore non esiste praticamente. Mentre qui, anche appena finita l’università, puoi essere assunto in un museo, nei primi anni si lavora accanto a figure più senior, poi si cresce, si trova la propria strada e un giorno puoi diventare direttore di un museo»..
Durante la pandemia, quando la Frick chiuse per i restauri, voi curatori avete tenuto i «Cocktail con il curatore»: un successo globale, con milioni di visualizzazioni, diventato un libro.
«Allora ero a Londra e poi in Italia, dovevo bermi questi cocktail alle 10 del mattino... Ma è stato divertente ed è stato un modo per far conoscere in tutto il mondo la collezione del museo. E per sentire la collezione vicina anche quando eravamo lontani e non era possibile portare le persone dentro i musei chiusi. Ancora c’è gente che ci scrive, l’altro giorno un’infermiera di Guantanamo: “Sono sopravvissuta al Covid perché il venerdì sapevo che avevo questo spazio per me nonostante la follia delle circostanze in cui vivevo”».
Come è nata la sua passione per l’arte?
«Prima ho fatto un anno di Giurisprudenza e ho capito che non era la mia strada. Poi pensavo di studiare solo arte contemporanea: in casa avevamo molti quadri del mio bisnonno, che collezionava di tutto e di più. Aveva fondato l’Eco della Stampa e aveva avuto l’intuizione che gli artisti avevano bisogno di rassegne stampa, ma non sempre se le potevano permettere, così si faceva pagare come volevano, inclusa la loro arte. Aveva così accumulato una collezione, soprattutto di croste sinceramente, anche se poi si è scoperto che alcuni pezzi erano abbastanza importanti. Mi intrigavano, erano come domande che chiedevano risposta, e quindi ho iniziato a interessarmi al mondo dell’arte del Novecento. Ma se vuoi studiare l’arte contemporanea devi comunque conoscere l’arte del passato. E mi sono gradualmente spostato sull’arte antica. Ho lasciato l’Italia abbastanza presto ma ho sempre sentito come un valore avere la prospettiva di una persona nata e cresciuta in Italia».
La storia dell’arte fatta all’estero è diversa rispetto all’Italia?
«La storia dell’arte fatta in Italia è molto basata su una storia dello stile, anche dal punto di visto metodologico delle domande, che non sono cambiate troppo negli ultimi 40-50 anni. La storia dell’arte anglosassone ha anche un po’ cambiato le domande da fare a questi oggetti del passato. Chi guarda e quanto ciò cambia l’oggetto che stai vedendo è una domanda che un po’ ossessiona il mondo anglosassone. Io ho sempre cercato di mettere insieme questi due modi di fare storia del’arte».
È appena uscito un suo libro su un artista senese del 1400, Vecchietta. Perché ha scritto proprio su di lui?
«È un personaggio che nessuno conosce, ma secondo me è un artista fighissimo. E ho cercato appunto di integrare due modi di fare Storia dell’arte che non sempre si parlano: non solo guardo le sue opere in quanto legate alla tradizione senese di quegli anni ma cerco anche di ragionare su cosa significa scrivere la monografia di un artista, quali sono i pregiudizi. Quando racconti una storia crei un contenitore entro cui inserire le cose: quali violenze interpretative commettiamo piegando i materiali per farli stare dentro cronologie e categorie? Per capire Vecchietta, secondo me, bisogna dimenticarsi la Storia dell’arte come la conosciamo. Lui difende un’idea universale dell’artista che può lavorare in media diversi, e lo fa 500 anni prima delle avanguardie moderne e prima che fosse consentito: nel 1400 le corporazioni erano rigide, se eri nell’arte dei pittori facevi il pittore, se eri nell’arte della pietra facevi lo scultore. Ma lui si iscrive a più corporazioni, e si firma come pittore sulle sculture e come scultore sulle pitture, sovvertendo le categorie istituzionali. Poi inizia a firmarsi sempre Vecchietta anticipando sorprendentemente l’idea novecentesca di cosa significa fare arte. Se non avessi avuto un background e un interesse forte per l’arte contemporanea forse non avrei visto queste cose nella sua opera, non avrei avuto questa chiave per interpretarla».
L’anno prossimo alla Frick farete una mostra sui bronzi senesi del 1400.
«Vecchietta lavora alcuni dei bronzi più belli del Quattrocento. E quest’idea di ricordare artisti dimenticati è una cosa che alla Frick facciamo molto: la scultura senese del Quattrocento è un soggetto su cui neanche in Italia si è mai fatta una mostra e noi, un po’ assurdamente forse, la facciamo a New York».
Lei si occupa soprattutto di arte italiana ed europea. Cosa significa per lei farlo da New York?
«È strano per me stare così lontano dagli oggetti. È utile e molto bello essere vicino alle opere nei loro contesti. Portarle negli Stati Uniti è sempre una operazione un po’ violenta. È anche il modo migliore di conoscerle ma poi devono tornare a casa. È come fare gli ambasciatori. I francesi versano risorse immense nella promozione della loro cultura all’estero e secondo me è fondamentale. Tradizionalmente c’è un amore per l’arte italiana negli Stati Uniti e abbiamo puntato sul fatto che siano gli altri a venire da noi. Ma in un mondo che è diventato più grande, questo movimento non è necessario né scontato, al di là dei grandi nomi. Il patrimonio artistico italiano è una rete diffusa: bisogna raccontarla, metterci risorse, pazienza e non vederla solo in termini di commercializzazione di un prodotto, ma di conoscenza di una realtà che può suscitare curiosità e supporto anche colto dagli Stati Uniti. Tanti restauri in Italia sono stati supportati da fondi americani. C’è stata una generazione di americani cresciuti con una forte educazione culturale che li ha portati verso l’Italia e l’Europa. Se vogliamo che continui, sta a noi».