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 2025  dicembre 27 Sabato calendario

Dall’emergenza sull’Ilva alla rottura con le imprese. I «tormenti» di Urso

Se persino il presidente di Confindustria non parla più con il ministro dell’Industria, vuol dire che Urso è stato silenziosamente sfiduciato.
D’altronde molti dossier sono passati di mano. La crisi dell’Ilva è finita alla presidenza del Consiglio, il decreto energia è stato gestito dall’Economia, il piano sul futuro sistema satellitare è diventato competenza di Palazzo Chigi e Viminale. È vero che Urso tre anni fa aveva ereditato uno dei dicasteri più rognosi, ma tre anni dopo il suo bilancio somiglia a quello di un’azienda sul punto di portare i libri in tribunale. Con tutto quel che ne potrebbe conseguire, perché le ricadute politiche sarebbero pesantissime. E in parte già lo sono. Per esempio, «se crollasse l’Ilva – come sottolinea un ministro – le macerie finirebbero su Meloni. Ci sono soldi fino a febbraio, non possiamo più varare aiuti di Stato e per andare avanti o provvede il fondo americano o si rischia la macelleria sociale».
A suo tempo l’idea di Urso di affidare l’azienda a un gruppo azero e di portare l’energia per gli altiforni con una nave rigassificatrice poteva sembrare geniale. «Ho idee geniali», disse al Quirinale durante un pranzo alla presenza di Mattarella. E per poco la premier non svenne. Più o meno come il giorno in cui i partner occidentali le spiegarono che il gas azero era di provenienza russa e che quel sito industriale si trovava a ridosso del porto militare di Taranto, strategico anche per la Nato. Insomma, non era il caso.
Ottomila lavoratori a rischio più l’indotto, sono il lascito di un fallimento che accomuna la politica nazionale. Nessuno può dichiararsi innocente, che sia chiaro. Ma adesso è l’unità di crisi del governo Meloni a dover disinnescare un ordigno che impatterebbe proprio sulla presidente del Consiglio. Altro che le bagatelle sul decreto Armi e il referendum sulla separazione delle carriere dei magistrati. Anche perché tutti ricordano quando Urso annunciò di avere raggiunto «un accordo di programma» su Taranto. E non lo annunciò solo una volta. A Confindustria di recente, durante una riunione, un consigliere ha iniziato a citare le dichiarazioni del ministro sull’Ilva, finché gli è stata tolta la parola.
Eppure il presidente Orsini all’inizio aveva costruito un buon rapporto con Urso, e lo aveva difeso da Assolombarda che aveva attaccato il ministro pubblicamente e in sua presenza. È stato il provvedimento Transizione 5.0 a causare la rottura: doveva destinare oltre sei miliardi di incentivi alle imprese e si è rivelato un fallimento. Risultato: Orsini ha fatto sapere che «d’ora in poi parlo solo con Meloni», Giorgetti ha dovuto metterci una toppa da un miliardo gridando che «nemmeno ai tempi del ministro Toninelli», e il viceministro Leo insieme al capogruppo di FdI Bignami si sono rivolti a Calenda per avere una consulenza sul decreto Energia.
«Calenda è il ministro che vorrei», era questo – come ha scritto Di Vico sul Foglio – il desiderio della premier. Lui si è addirittura proposto «a titolo gratuito» per prendere in mano il dossier Ilva. Lei ovviamente ha dovuto declinare, altrimenti avrebbe fatto prima a salire al Quirinale e chiedere il cambio al dicastero. Ma non c’è viandante transitato da Palazzo Chigi che non abbia registrato l’umor nero di Meloni ogni qualvolta si è affrontato l’argomento. Perciò non vale nemmeno la pena attardarsi sulla veridicità o meno di una battuta attribuita alla presidente del Consiglio, che dopo aver scorso la lista dei tavoli gestiti al ministero dell’Industria avrebbe detto: «Se stava fermo era meglio».
Da trentasei mesi la produzione industriale è in calo, complice anche la congiuntura internazionale. Ma Urso è consapevole che le sue azioni alla Borsa della politica non vengono più scambiate. Confida solo che l’Ilva si salvi per salvare il suo nome. Almeno questo, visto che pure sull’automotive i suoi annunci non gli hanno portato bene: «In Italia si produrranno un milione di veicoli», disse dopo un colloquio con i vertici di Stellantis. Oggi la cifra è sotto le quattrocentomila unità. È finita la benzina.